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Cesco Baseggio. Ritratto dell'attore da vecchio
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Dettagli

2003
1 gennaio 2008
216 p., Brossura
9788883142116

Voce della critica

Il libro fa parte d'una collana di "Profili novecenteschi" diretta da Mario Isnenghi, dedicata a "vite cominciate fra Otto e Novecento", protagonisti della storia e della cultura veneta "fra due guerre mondiali, monarchia e repubblica, fascismo e antifascismo, tradizione e modernizzazione". Su questo sfondo, il ritratto d'attore composto da Paolo Puppa è un giusto tassello, ma anche un'allegoria: la vecchiaia come via al protagonismo. Per gli attori del teatro veneto diventare primattori voleva dire, in piena giovinezza anagrafica, conquistare i ruoli della vecchiaia scenica, l'età apparente che permetteva d'esser modernamente Pantalone o uno dei suoi derivati, fino ai protagonisti crepuscolari di Giacinto Gallina e Renato Simoni.

Cesco Baseggio (1897-1972) aveva ventinove anni quando interpretò il vecchio Shylock (dal Mercante di Venezia di Shakespeare), tradotto in lingua veneta e aggiustato a protagonista assoluto, secondo un uso dei grandi attori-creatori ottocenteschi. Baseggio continuò a recitarlo dal 1927 fino agli anni cinquanta del Novecento. Puppa commenta: era un copione che praticamente l'attore s'era adattato da sé; un grande personaggio d'avaro interpretato da un attore afflitto dal vizio del gioco e dalla prodigalità. Come i pittori, anche gli attori protagonisti pensavano all'autoritratto come a uno dei generi della loro arte. E gli attori più intelligenti non dimenticavano che per essere credibile l'autoritratto ha da rovesciarsi, invertirsi, va fatto allo specchio, con la destra al posto della sinistra a viceversa.

Chi ha l'età per aver visto Cesco Baseggio recitare dal vivo fatica in genere a ricordarsi quanto fosse bravo a scatenare la risata. A distanza di tempo, prevale il ricordo all'ingrosso, la doppia faccia del suo repertorio: struggente, da un lato, fino al limitare della sdolcinatura; violentemente plebeo, dall'altro, fino ai limiti della volgarità. Il corpo principale di quel repertorio era Goldoni, ma agli estremi si trovavano di qua un testo da poco: Papa Sarto (un Pio X scritto da Giuseppe Maffioli), che permetteva a Baseggio una creazione scenica di traboccante commozione, capace di riscuotere durature immagini d'una sorta di santità casalinga e sofferente; di là i capolavori cinquecenteschi del Ruzante, che Baseggio contribuì a riportare in auge senza mire filologiche, interpretandoli con una durezza, una cattiveria, un senso del dramma che viveva nello scatto dall'abiezione alla ferocia.

La recitazione di Baseggio procedeva per curve lente e morbide, rotte da improvvisi morsi. I suoi protagonisti erano dilaganti, come una marea che occupava pian piano l'intero territorio del dramma e dello spettatore, o che entrava in scena con l'irruenza d'un'inondazione. In realtà non dialogava, ma usava gli interlocutori come ostacoli da accerchiare, vincere o sommergere. Mentre Gilberto Govi, per esempio, o Eduardo, oppure Randone, costruivano le proprie scene partendo dal seme della controscena, Baseggio era un attore attaccante (come Benassi, Musco o Peppino De Filippo). Nelle poche scene in cui non era protagonista, invertiva semplicemente la direzione di marcia: si ritraeva, si costruiva un guscio, un carattere, vi si chiudeva dentro, e solo ogni tanto lasciava fuoriuscire dal cliché ben tornito il guizzo di un po' di vita. Questo accadeva soprattutto nel cinema. Nel cinema non fu mai altro che un'utile figura di contorno (per esempio il servitore di Kean nel film di Gassman del 1956). Nel teatro, fu tra le icone dell'epoca. Il teatro veneto ha anche i caratteri d'un teatro nazionale, non fosse che per la presenza di Goldoni. Lungo qualche decennio, Baseggio fu visto come l'emblema del Goldoni all'antica. Oggi rappresenta semmai il ricordo d'un'originalità diversa, rispetto ai ricordi delle novità di Visconti, Strehler e Squarzina: il Goldoni di Baseggio non scavava nella società ma nella famiglia-nido-di-vipere, fra echi di perversione e l'eterna lusinga della dolcezza. Era un Goldoni pascoliano, più che all'antica. Era moderno? Certo che sì. Il teatro di regia non è la sola via alla modernità teatrale. Era moderno nel fraseggio attorico, non nella messinscena o nell'urto col testo.

Il libro di Paolo Puppa è un'inchiesta circostanziata e intelligente, ha in superficie uno stile indaffarato e affettuoso, ma senza darlo troppo a vedere propone un metodo che ponga al centro la sostanza in cui l'attore, come soggetto storico, tutto sommato consiste: memoria in progress. Si apre con l'oggi, col Baseggio che si conserva registrato su pellicola o in televisione; contrappone alla piccola folla dei suoi personaggi minori, ma ancora visibili, l'altra folla dei protagonisti recitati a teatro, che non si vedono più ed erano la sua arte. Passa da questi ai personaggi-autoritratto, dove le fattezze dell'attore si sono in parte sedimentate nella scrittura, fra cento riscontri autobiografici possibili e altrettante possibili traveggole. Subito dopo inserisce una sorta di limbo, un capitolo intitolato Ciacole, dove si ascolta il coro delle testimonianze orali, incontri con la voce anziana di chi lo conobbe o lavorò con lui.

Qui si fa apprezzare l'esperienza del Puppa non solo critico e studioso, ma scrittore e drammaturgo: lavora sulla sabbia dell'aneddotica e fa di essa un panorama significativo. Non pretende che la conversazione (o l'intervista) sia come una testimonianza di prima mano. La tratta per quel che è: un'onda di oblio dalla quale bisogna saper pescare i minuscoli relitti d'un mondo andato. Solo dopo aver attraversato le chiacchiere, ricostruisce la carriera dell'attore, ne fa storia, approda, come dice, ai "dati certi o quasi", mettendo fine alla navigazione fra ombre e sipari. Dopo di che spalanca la visuale, inserisce Baseggio nella storia del teatro veneto, lo profila in un contesto, sottolinea gli elementi di discontinuità. Il capitolo finale chiude il cerchio, utilizza la vecchiaia dell'attore e la salda con il punto di partenza: l'ultima comparsa in televisione, la solitudine, i debiti e i funerali con il discorso in veneto di monsignor Capovilla, che forse per ingenuità, forse per furbo candore, sembra accennare alla chiacchierata propensione di Baseggio per i bambini, invoca il perdono d'iddio e suggerisce di metterlo là, l'attore, nella schiera dei piccoli, cui apparteneva. Sono episodi che diventano metafore per la forza del montaggio, come se, giunto alla fine dell'inchiesta, l'autore si trasformasse in un inviato speciale che si guarda intorno perché è lì per farsi un'idea dei fatti e delle circostanze.

Il far storia d'un attore confina sempre con un come se: come se lo storico fosse uno spettatore dislocato nel tempo. C'è sempre il rischio della prevaricazione critica, l'agguato d'un sapere presunto, quasi che la distanza dal proprio soggetto, e il di lui forzato silenzio, permettessero di penetrare i retroscena di un'arte di cui in realtà conosciamo pochissimo. Paolo Puppa lo dice subito, quasi ad apertura di libro: "Quanto segue è scritto senza reticenze e sudditanze, ma come se avessi Cesco davanti a me e potesse ascoltarmi, non è un discorso alle sue spalle". Una frase così ben tornita da assomigliare a una massima di deontologia professionale.

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