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La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza - Eligio Resta - copertina
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2
1996
1 gennaio 1996
Libro tecnico professionale
238 p.
9788842039952

Voce della critica


recensione di Ferrajoli, L., L'Indice 1993, n. 7
(recensione pubblicata per l'edizione del 1992)

"Nella violenza c'è speranza, nell'operazione legale c'è certezza" questa la differenza tra violenza e diritto enunciata da Jean-Paul Sartre nei suoi "Cahiers pour une morale" (trad. it. Roma 1991, pp. 169) e ripresa e sviluppata da Eligio Resta nel suo libro "La certezza e la speranza". Muovendo da questa singolare opposizione, Resta affronta i due problemi di fondo di ogni filosofia del diritto: cos'è il diritto, e qual è la specificità di quella moderna invenzione che è il diritto positivo nato con lo stato moderno come soggetto sovrano. La "differenza" tra diritto e violenza, scrive Resta, è anche il loro "confine, a volte sicuro, altre volte labile". Ciò che caratterizza il diritto - che è pur esso forza e violenza, sia pure "regolata, statuita, limitata" - è precisa mente la sua "differenza" dalla violenza che esso intende regolare, esorcizzare e bandire: una differenza "autoaffermata", cioè istituita performativamente dallo stesso diritto e dal "sapere giuridico" attraverso un'opera millenaria di "auto-inganno", ma sempre esposta al rischio della sua negazione, cioè dell'in-differenziazione rispetto alla violenza illegittima. Giacché questa differenza non è mai data una volta per sempre e non ha nulla di ontologico. "Il diritto sarà differente dalla violenza se lo sarà; sarà soltanto un'altra violenza se finirà per assomigliare troppo all'oggetto che dice di regolare". È questa la "scommessa" del diritto: il quale è "semplicemente il luogo in cui si è giocata, e si continua a giocare, la scommessa di una differenza rispetto alla violenza". La chiave esplicativa di questa ambivalenza del diritto è identificata da Resta - in questa sua densa riflessione di carattere storico, antropologico e filosofico - nella categoria del 'pharmakon': "in ogni caso il legislatore deve provvedere con un 'pharmakon'" scriveva Platone nelle "Leggi"; e ancora, nel "Carmide": "quando mi chiese se conoscessi il 'pharmakon' contro il male, gli parlai di una certa pianta con l'aggiunta di un incantesimo ('pharmakon')". 'Pharmakon', infatti, è al tempo stesso veleno e antidoto, malattia e cura, idoneo a funzionare come rimedio proprio in virtù della sua natura mimetica rispetto al male da curare. E i mali sociali per eccellenza, distruttivo e virtualmente illimitati sono precisamente - da sempre e ancor oggi - la violenza e la guerra. Resta ripercorre con grande efficacia la storia dei diversi "farmaci", tutti basati sulla loro ambivalenza mimetica nei riguardi della violenza, con cui la società, nelle diverse autorapprcsentazioni rassicuranti che ha offerto di se medesima, ha insieme fronteggiato e occultato la sua violenza: dapprima il "modello preventivo" del sacrificio del capro espiatorio, di cui Ren‚ Girerd ha mostrato la funzione di esportazione-attribuzione alla sfera del sacro e quindi di isolamento e di esorcizzazione della violenza poi il "modello preventivo-curativo" della vendetta del sangue ritualizzata, delle ordalie, dei guidrigildi e dei duelli giudiziari; infine il "modello curativo" del diritto e della composizione legale e giudiziaria dei conflitti attraverso la confisca, l'appropriazione e la razionalizzazione della violenza. In quanto violenza legale - pre-scritta o pre-disposta dal sovrano, nel duplice senso che è imposta e insieme prevista mediante leggi scritte - il diritto è il 'pharmakon' più potente, la sola "risposta razionale, esclusiva, moderna, l'unica possibile alla violenza di tutta la società". Le sue capacità farmaceutiche sono affidate al dosaggio della violenza, cioè alla sua forma e misura e soprattutto alla "scrittura" delle leggi, la cui "lettera scritta", scriveva ancora Platone nelle "Leggi", "il buon giudice deve conservare come 'alexipharmaka' contro gli altri discorsi".
Questo paradigma interpretativo del diritto e della sua storia mi sembra di una straordinaria fecondità. Ne risulta un modello di diritto al tempo stesso descrittivo e normativo: il diritto è differente ma, soprattutto, deve essere differente dalla violenza. E può esserlo in quanto, e solo in quanto, minimizzi la sua stessa violenza garantendola dai suoi eccessi e dai suoi arbitrii. Ma non è detto che esso riesca a esserlo e che vinca la sua scommessa È sempre in agguato la possibilità che esso perda la sua identità e si converta nel suo contrario. L'ineffettività delle leggi che disciplinano e limitano l'esercizio dei poteri, le leggi d'eccezione e d'emergenza, le guerre mascherate e legittimate come giuste o legali, gli abusi, gli sviamenti e tutte le forme di rottura dall'alto della legalità, sono altrettanti fallimenti del diritto. Con esse il diritto smarrisce la propria differenza dall'oggetto che deve regolare e si converte nel suo contrario: violenza illegale, in-differenziata rispetto alla violenza sociale, che a questa si somma alimentandola anziché negandola.
Sotto questo aspetto sono particolarmente illuminanti le pagine dedicate da Resta al diritto moderno. È con il diritto moderno - fondato sul monopolio statale della forza, sul convenzionalismo delle sue prescrizioni, sulla sua separazione dalla morale e sul carattere unicamente formale e procedurale della sua legittimazione - che il 'pharmakon' giuridico si perfeziona come "artificio" e prende consapevolezza di sé. Ed è a Thomas Hobbes che Resta ne fa risalire la rappresentazione più penetrante Contro la violenza indifferenziata della guerra di tutti contro tutti propria della società naturale, ove nulla è ingiusto e tutti vivono "una condizione unanime di incertezza, di caso e di imprevedibilità", la fondazione dello stato civile viene configurata da Hobbes, fin dal celebre esordio del "Leviatano", come il prodotto razionale di "patti e concordati", che "sono come il 'fiat' pronunziato da Dio nella creazione" e dai quali "è creato quel gran Leviatano chiamato uno Stato, il quale non è che un uomo artificiale, benché di maggiore statura e forza naturale, per la protezione e difesa del quale è concepito.
E con la creazione del sovrano - questo "Dio mortale", come lo chiama Hobbes, creato "con l'arte dell'uomo" che imita la "natura, cioè l'arte con la quale Iddio ha fatto e governato il mondo" - che la violenza viene trascesa e al tempo stesso incorporata nel diritto e ad esso assoggettata. È allora che la differenza del diritto - imitazione e insieme antidoto alla violenza dello stato di natura - viene positivamente e convenzionalmente assunta come "valida", entro un ordine sociale non più presupposto ma artificialmente costruito da un atto performativo, che come il 'fiat' della creazione divina viene postulato e insieme occultato dal sapere giuridico in un immaginario contratto o più modernamente, come nella teoria di Kelsen, in una ipotetica norma originaria o fondamentale. La storia del diritto moderno altro non è che la storia della costruzione di quel complesso artificio, fatto di limiti, prescrizioni e garanzie legali attraverso cui la violenza è stata regolata, predeterminata e minimizzata. "La legalità - scrive Resta - è allora questo 'limite', questo confine tra speranza e certezza, tra il caso e la regolarità, tra il noto e l'ignoto, tra la forza e la violenza".
Ma il percorso della modernità può essere anche compiuto a ritroso. E quanto hanno fatto le dottrine illiberali dello stato etico, e per altro verso le varie etiche della fratellanza e del "bene comune" che hanno alimentato le esperienze totalitarie del nostro secolo. Di nuovo la tentazione dell'indifferenziazione tra stato e società, tra governanti e governati, tra pubblico e privato, tra diritto e morale. è tornata a minacciare - da destra e da sinistra - la certezza in nome della speranza e a riabilitare la violenza contro la "fredda razionalità delle istituzioni giuridiche e politiche".
Contro il "paradosso della rettitudine" e contro la pericolosa illusione che la società possa essere "regolata dalla virtù", Resta ribadisce il valore della scommessa sulla differenza del diritto. E ricorda il ruolo di vanificazione dei diritti svolto dalle legislazioni autoritarie attraverso le varie clausole generali formulate in termini virtuosi come "bene comune", "interesse generale" e simili. Ma è proprio il suggestivo paradigma del 'pharmakon' proposto da Resta che consente oggi, a me pare, di comprendere la nuova differenza, inventata dal sapere giuridico del nostro secolo, sulla quale si gioca la scommessa del diritto contemporaneo: l'incorporazione negli ordinamenti non solo della violenza ma anche delle virtù, sotto forma di diritti fondamentali sanciti nelle odierne costituzioni rigide e garantiti quali altrettanti limiti e vincoli ai poteri costituiti. Il diritto degli stati di diritto a costituzione rigida oggi non è più, semplicemente, diritto positivo, ma "diritto sul diritto" che incorpora limiti e vincoli a sé medesimo, non solo formali ma anche sostanziali. La scommessa del diritto si è fatta più alta e più difficile. Ma non per questo meno decisiva e meno degna di essere giocata.

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