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Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale
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Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale - Filippo Focardi - copertina
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Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale

Descrizione


Cattivo tedesco. Barbaro, sanguinario, imbevuto di ideologia razzista e pronto a eseguire gli ordini con brutalità. Al contrario, bravo italiano. Pacifico, empatico, contrario alla guerra, cordiale e generoso anche quando vestiva i panni dell'occupante. Sono i due stereotipi che hanno segnato la memoria pubblica nazionale e consentito il formarsi di una zona d'ombra: non fare i conti con gli aspetti aggressivi e criminali della guerra combattuta dall'Italia monarchico-fascista a fianco del Terzo Reich. A distinguere fra Italia e Germania era stata innanzitutto la propaganda degli Alleati: la responsabilità della guerra non gravava sul popolo italiano ma su Mussolini e sul regime, che avevano messo il destino del paese nelle mani del sanguinario camerata germanico. Gli italiani non avevano colpe e il vero nemico della nazione era il Tedesco. Gli argomenti furono ripresi e rilanciati dopo l'8 settembre dal re e da Badoglio e da tutte le forze dell'antifascismo, prima impegnati a mobilitare la nazione contro l'oppressore tedesco e il traditore fascista, poi a rivendicare per il paese sconfitto una pace non punitiva. La giusta esaltazione dei meriti guadagnati nella guerra di Liberazione ha finito così per oscurare le responsabilità italiane ed è prevalsa un'immagine autoassolutoria che ha addossato sui tedeschi il peso esclusivo dei crimini dell'Asse, non senza l'interessato beneplacito e l'impegno attivo di uomini e istituzioni che avevano sostenuto la tragica avventura del fascismo.
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Dettagli

6
2013
10 gennaio 2013
XIX-288 p., Brossura
9788858104309

Valutazioni e recensioni

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gianni
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Studio assai interessante, anche e soprattutto per le riflessioni che Focardi presenta nel finale: l'Italia paese di scarsa o nulla memoria, di coscienza divisa, alleggerita, depotenziata o banalizzante. Focardi racconta la storia di un nascondimento, di un mito, e al contempo sottolinea la assoluta necessità di una vera memoria storica: fattore determinante per una vera convivenza civile, fuori dalle paludi che, specie negli ultimi vent'anni, hanno rimescolato tutto in una confusione interessata, che confida nel persistere dell'ignoranza, anzi nel suo rafforzarsi.

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oreste
Recensioni: 5/5

Non aggiungerei una parola alla recensione che mi ha preceduto. Il volume ricostruisce attraverso fonti molto diverse (memorialistica, volantini, giornali, cinema) la costruzione di una memoria pubblica della seconda guerra mondiale, volutamente distorta e che, nelle differenze dei diversi schieramenti, trova tuttavia fattori di comunanza, allo scopo ultimo di riscattare l'Italia, in particolare in previsione dei trattati di pace.

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M.C.
Recensioni: 5/5

Veramente ottimo questo volume di Filippo Focardi, ben scritto, scorrevole, interessante dalla prima all'ultima pagina senza timore di noia, e sostenuto da un poderoso apparato bibliografico. Mi ha dato enormemente fastidio, il 27 gennaio 2013, la frase di Berlusconi sul fatto che Mussolini abbia fatto anche cose buone. Questo libro dimostra come un pensiero del genere sia purtroppo diffuso in Italia, e perchè lo sia, e perchè sia atrocemente sbagliato, fasullo, storicamente ingiustificabile, inaccettabile, e abbia permesso all'Italia di scaricare tutte le colpe della Seconda guerra mondiale sulla Germania. Già a guerra in corso si è venuto costruendo questo stereotipo, poi variamente declinato a seconda delle necessità politiche italiane del dopoguerra, e sempre più inculcato nella popolazione, con riviste, libri, saggi, diari, commemorazioni ufficiali, rivisitazioni della storia, manipolazioni, che continuano ancora oggi, come dimostrano le proteste formali dell'Italia contro un documentario della BBC sui crimini del fascismo in Etiopia e la scarsa pubblicizzazione di documentari, manuali e libri italiani che tolgono il velo a ciò che gran parte della storiografia ha volutamente ignorato. Ma anche all'estero le ricerche in questo campo sono sempre più avanzate, agli italiani tocca aggiornarsi e farsi un esame di coscienza - dopo 65 anni.

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Voce della critica

  "L'atroce presente nemico dell'umanità» secondo Benedetto Croce; «Unni calati dal paese della barbarie" nel giudizio di Piero Calamandrei; "biechi figlioli d'Arminio e del Barbarossa" nelle parole di Francesco Flora: si potrebbe continuare, ma in ogni caso l'immagine e il mito del "cattivo tedesco" ebbe un peso assai rilevante, nella popolazione italiana, e tra gli intellettuali, nell'immediato dopoguerra. Era una rappresentazione non priva di fondamenti, dopo l'esperienza drammatica dell'occupazione tedesca che aveva portato con sé stragi di civili e di partigiani, distruzioni, deportazioni. La violenza nazista si era caratterizzata come "un di più" rispetto a ciò che le persone potevano pensare, ma nello stesso tempo si era costruita su un'immagine del tedesco che aveva radici lontane, nel Risorgimento e nella prima guerra mondiale sopra tutto. Nella narrazione popolare si sarebbero alternate rappresentazioni di tedeschi feroci, freddi e insensibili (poi sistematicamente riferite solo alle SS) con quelle di altri tedeschi gentili e capaci di comprendere gli errori compiuti dal nazismo e dalla Germania, fino a cambiare campo e aderire in qualche forma alla Resistenza. Questi ultimi avrebbero avuto a lungo il volto dei soldati della Wehrmacht fino a quando, dopo una celebre mostra allestita in Germania a metà degli anni novanta, anche quel mito sarebbe entrato in crisi. Fu una costruzione che si andò formando in Italia a partire dall'armistizio dell'8 settembre 1943 e che si consolidò nei primi due anni del dopoguerra, non a caso mentre si stava discutendo il trattato di pace. Fu una costruzione che contemporaneamente si intrecciò a un'altra, altrettanto potente e determinante nella definizione del discorso pubblico e della memoria nazionale, ossia quella del "bravo italiano". I nostri soldati diventavano l'immagine di un carattere nazionale mite per natura, opposto a quel furore teutonico sul quale dovevano ricadere tutte le responsabilità, a partire dal genocidio ebraico, rispetto al quale gli italiani avrebbero invece mostrato orrore e distanza, praticando la solidarietà in moltissime circostanze. Soldati che erano a loro volta la rappresentazione di un buon popolo vittima di Mussolini e del fascismo, colpevole forse di un troppo lungo silenzio, ma certo non complice. Venivano al contrario rimosse tutte le responsabilità del nostro esercito e dei suoi comandanti, specie nei Balcani, e la mancata Norimberga italiana avrebbe alimentato e consolidato quell'oblio collettivo. La Resistenza, la sua narrazione e i suoi miti diventavano invece il luogo del riscatto e allo stesso tempo del riconoscimento della diversità tra italiani e tedeschi. La costruzione dell'intreccio tra il "cattivo tedesco" e il "bravo italiano" costituiva così (ci spiega Focardi, che sintetizza qui, con intelligenza, un'intensa stagione di riflessioni su un tema ineludibile) uno strumento per evitare una territorialmente mutilante pace punitiva, per legittimare politicamente i partiti antifascisti e per evitare una resa dei conti che avrebbe necessariamente costretto a una complessiva riflessione sull'"autobiografia della nazione" e sulle responsabilità concrete della classe dirigente italiana, di tutta la classe dirigente italiana.   Bruno Maida

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