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La casa della contessa - Alberto Paleari - copertina
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Descrizione


Tornando da un'ascensione al Pizzo Crampiolo, Oreste inciampa nel proprio destino ed inizia a raccontare all'Angelo Sterminatore la propria storia.
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Dettagli

1993
1 gennaio 1993
132 p., Brossura
9788878081086

Voce della critica

SEGALA, ALBERTO (A CURA DI), Le ore della luna

PALEARI, ALBERTO, La Casa della Contessa

ALESSANDRINI, ALFONSO, Pensare il bosco

ABBEY, EDWARD, Deserto solitario. Una stagione nei territori selvaggi
recensione di Bertone, G., L'Indice 1994, n. 4

Montagne, deserti, foreste e isole infrequentate, non un angolo degli ultimi West planetari è risparmiato dalla pubblicità; che, al solito, ha già capito tutto e, prima ancora che si chiariscano, ha già tradotto le tendenze e le tensioni culturali in bisogni di immagini e di merci. A chi invece si occupa domenicalmente di letterature varie di mare, di monti e di plaghe desertiche può capitare quasi per caso un libro per nulla petulante, anzi quasi invisibile persino in libreria, che però reclama un'estensione d'interesse al lunedì e oltre. Lo so, "Deserto solitario" al lettore professionista che non conosce vacanze può insinuare qualche dubbio, e alla prima annusata gli apparirà libro fin troppo composito: capitoli autobiografici (il resoconto di sei mesi passati nel deserto dell'Utah come ranger, ossia guardiaparco dell'Arches National Monument), capitoli naturalistici (mineralogia, flora, fauna), polemiche aperte (contro le alte sfere del Park Service e la politica che governo e industrie petrolifere chiamano con eufemismo burocratico "valorizzazione"), i soliti aneddoti locali, avventure ed esplorazioni.
Però: questo misterioso Abbey (ma che fine avrà fatto dopo la pubblicazione del libro nel '68? Ricca mancia a chi ne dà notizie), questo strano tipo che visse una stagione in una roulotte sgangherata del parco, isolatissimo, con quarantacinque gradi all'ombra, topi e serpenti tra i piedi e, attorno, una natura tra le più ostiche del pianeta e che alla fine, vedremo, uscirà di scena, si permette di scrivere con stile incredibilmente arguto, ironico su un andante con moto che sembra discendere da una disposizione na'f, e che invece è il frutto di una cultura che ha letto molto, Thoreau naturalmente in testa. Persino le sabbie mobili della retorica ecologica sono superate, non solo dalla data non sospetta, ma dalla capacità di conquistare i toni di un'invettiva orale, consumata in cerchio al fuoco notturno di un bivacco. Quanto ai racconti: qui lo si aspetta. Ma Abbey gira agilmente la sfida. All'inizio fa le finte di chi riassume le dicerie dei villaggi come per dovere di cronista: un giorno torrido di giugno degli anni cinquanta arrivò a Moab, la capitale del deserto, la famiglia Husk proveniente dal Texas dove aveva venduto tutto per lanciarsi nella nuova corsa all'uranio dell'Utah. Poi a poco a poco il racconto si dilata, indugia nei momenti cruciali (padre e figlio soli, in pieno deserto a scavare come ossessi, finché un altro uomo non li cancellerà da quella geografia infernale) ed eccoti una storia western, col metallo radioattivo al posto dell'oro, jeep, elicotteri e contatore geiger al posto di picconi, setacci e cavalli, una storia incisa nettamente, pronta per un'antologia o un film western tragico e atroce (non è forse il western in pieno revival?). Dopo il finale - modernamente non thoreauiano: Abbey, "saturo di solitudine e inquieto, lascia il deserto e come un 'macadam cowboy' si tuffa nella metropoli -, la speranza e la scommessa del lettore domenicale non è di vedere il libro nelle mani di un fine comparatista che lo incroci con la meditazione filosofica sui deserti statunitensi di Jean Baudrillard ("L'America", in Italia da Feltrinelli, 1987) per stilare un raffinato saggio sul deserto nella letteratura mondiale, ma di trovarlo, preferibilmente in buona posizione, per una volta, in quelle tabelle orrorifiche che sono le classifiche librarie settimanali.
Scommesse già perse? Nel frattempo, il paragone col prodotto interno lordo viene spontaneo. E da noi? Da noi l'editoria nazionale e locale batte, come un maniscalco frettoloso, il ferro caldo del naturismo dell'ecologia e delle "riserve" selvagge dei nostri piccoli West. Con una campionatura non poco arbitraria si può cominciare coi "diari segreti" dei guardiaparchi del Gran Paradiso, che segreti non sono per niente, visto che sono ufficiali, ovvero resi addirittura obbligatori prima di tutto per encomiabile disposizione burocratica dal 1945. Oltre agli orari e alle scadenze d'ufficio, i diari registrano negli anni - ma attenzione: sempre meno - fatti, riflessioni, episodi personali. Con lavoro pazientissimo e una sollecitudine fuori discussione il giornalista Segàla li ha letti (700 su 1345) e antologizzati in tante "striscette", brani brevissimi, senza le date e i luoghi n‚ gli autori se non cumulativamente, con titoletti giustapposti e una divisione generale per capitoli ("Le ore, i giorni, gli anni", "Le stagioni della vita"...) che, se permettono di gustare a piccoli sorsi i singoli referti, non consentono una ricomposizione narrativa n‚ descrittiva delle varie vallate o dei personaggi, tantomeno l'eventuale impiego sociolinguistico. Splendide minicartoline, insomma, accompagnate da vere foto dei guardiaparco in posa teatrale. Flash diaristici e "pose" soddisferanno certo la sete del lettore specializzato e soggiornante, e le Pro Loco in vena di allestire qualche mostra: forse è già tanto, ma niente di più.
Opera di un esperto che parla da dentro una professione è invece "Pensare il bosco". E qui non se ne parlerebbe se il volume fosse solo una rassegna di problemi tecnici, di descrizioni agroforestali con dati, tabelle e diagrammi alla mano: indici di boscosità nazionale e mondiale, le specie arboree dominanti provincia per provincia, gli alberi monumentali del mondo. Ma all'autore non basta. E a piene mani offre una serie di considerazioni parafilosofiche sul bosco, pensamenti, commenti con citazioni plurime di vari autori famosi, aneddoti personali introdotti tra una cifra e l'altra, a partire dagli inizi di una carriera avviata nei boschi e proseguita a Roma nel Corpo Forestale di Stato. Risultato: lo spiazzamento del lettore. Spiazzamento che è dovuto meno all'indiscriminato ma plateale saccheggio di tanti autori estirpati e stretti in fascine, che so, Norberto Bobbio e Barbra Streisand (non senza il recupero di un ecologista forestale di sicura tenuta come D'Annunzio), che al linguaggio. Corre per tutto il volume, sicura di sé e rombante come una motosega, una corrente linguistica del tipo: "La graduatoria di priorità si costruisce analizzando i fattori ambientali che condizionano la natura" o "Alcuni valori geopsichici vanno recuperati" ecc. Più che gli alberi poté la metropoli ministeriale romana? Tutte le competenze e le ottime intenzioni dell'amico di Rigoni Stern e di Ermanno Olmi finiscono fusi in un repertorio al servizio di quel linguaggio nostrano tipico, ben più micidiale di quello del Park Service Usa, che i politici-oratori, i politici-intervistati, i politici-prefatori (pure qui ce n'è uno) sanno modulare da quasi un secolo, rimestandolo nel gavettone della retorica di regime alla prima occasione o appunto, per la festa dell'Albero (di cui qui, con doppio merito dunque, si pubblica in appendice il decreto regio di istituzione: 2 febbraio 1902).
Diversissimo il discorso, altra la scheda per il secondo romanzo di Alberto Paleari, dopo "Kerguélen*. Classe anagrafica '49, classe culturale '68, ex studente di filosofia, guida alpina tra le più conosciute, buon lettore di classici, Paleari è uno dei rari scrittori di montagna e d'alpinismo che galleggi sopra il mare sociologico degli infiniti racconti, relazioni, 'récits l'ascension', stesi dai frequentatori di quei luoghi, iscritti al Club alpino e no. Dentro la consueta scaltrezza nella costruzione del plot, la scrittura dimostra ora una notevole crescita nella capacità di tessere storie private e pubbliche; una scrittura tenuta sempre tra il drammatico e il comico-umoristico, felicemente. Già l'avvio pretende a incipit, se appartiene a un topos diffuso nella narrativa maggiore d'ogni tempo: la sospensione della morte per poter e dover narrare ancora. Durante la discesa dalla montagna Oreste è colpito alla testa da un masso. L'angelo sterminatore che arriva per falciare il suo ultimo legame con la vita gli concede una manciata di centesimi. Un attimo solo per riepilogare un'esistenza. Ma l'attimo - complice pure un orologio un po' balordo di quelli che si trovano nel Dash - si dilata fino a inglobare l'unità di tempo di tutto il romanzo e a concedere altra vita. Altra vita e un finale più lieto rispetto a un attacco che, a parte l'understatement umoristico, rivela tutti i conti aperti con la morte e con la modernità (e, dall'altro versante, con il mito della bellezza femminile). Così si dipana la biografia dello zingaro Oreste, sposo d'una maga, e la storia della loro casa, la Casa della Contessa, posta al centro dell'ombelico del mondo (ogni autore ha il suo) ovvero l'Alpe Devero sopra Gravellona Toce, una località di montagna sbarrata dalle dighe e irretita dai fili delle numerose centrali dell'Enel. Ma Oreste è Oreste? Oreste è uno zingaro? O è un professore di lettere? O altro? E quale tra le tante proposte è la vera storia della Casa? Un di più di disinvoltura fa procedere il racconto per scatole cinesi, per labirinti senza o con troppe soluzioni. Sbaglierebbe chi pizzicasse in questo solo la superficie: l'ennesima concessione alla vecchia moda borgesiana, un eccesso di sofisticazione letteraria. Qui e altrove (anche nei racconti che forse sono la misura a lui più congeniale) c'è, da parte di Paleari, una renitenza più profonda: egli conduce il lettore sul filo affascinante di una favola moderna in spola tra "riserve indiane" dei monti e vita cittadina, e poi d'improvviso l'abbandona dichiarandogli con un sorriso che la storia vera non è quella ma un'altra. E così via con altri sorrisi e altri abbandoni, senza che infine almeno un livello, una scatola, sia quella dove chi scrive e chi legge possano incontrarsi con profitto. Lo impedisce una specie di timidezza narrativa, un timore o pudore di credere e far credere fino in fondo alla vicenda, fosse pure la vicenda di chi narra di uno che narra una o più vicende. Dopo aver sentito la corda ben tesa davanti a sè, chi legge di colpo se la vede ammosciata sul naso: l'autore se ne sta andando per un'altra via, chissà dove. Una buona redazione, oltre a correggere refusi e a migliorare la veste tipografica, gli impedirebbe le derive microscopiche (i giochi di parole sul Pizzo Crampiolo Sud equivocato sul pizzo nel senso di "fare la cresta") e macroscopiche (l 'entrata e l'uscita di racconti, magari con l'alibi ormai abusato del computer che resuscita files sepolti) e darebbe una mano alla progressione dell'unico (o quasi) scrittore delle "riserve" e delle quote che abbiamo oggi (a parte chi alle "riserve" e alla loro leggenda è arrivato per l'antica via del reduce, come Rigoni Stern).

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