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Recensioni La casa del tè

La casa del tè di Valerio Principessa
Recensioni: 5/5
Gabriel è un ragazzo innamorato delle parole, soprattutto di quelle che è impossibile tradurre in altre lingue – come la giapponese wabi-sabi, che esprime l’autenticità dell’imperfezione, o come iktsuarpok, con cui gli Inuit dell’Artico intendono l’irrequietezza nel controllare se qualcuno sta arrivando oltre l’orizzonte. Parole uniche e sole, come solo si sente Gabriel quando muore la vecchia Berta, con cui viveva. Confuso e smarrito, viene accolto nella casa affidataria della signora Michiko, nel quartiere Monti a Roma. Gabriel si trova così ad abitare sotto lo stesso tetto con altri minori rimasti orfani o sottratti a situazioni difficili, come il piccolo Leo, come Chiara, così affascinante, o Greta, sempre concentrata a scrivere messaggi al cellulare non si sa a chi, come il minaccioso Scar e l’imponente Amina. Michiko, discreta e paziente, segue i giovani ospiti con parole e gesti piccoli che restituiscono la grandezza dell’universo. I ragazzi le si affezionano ma, invasi dal loro passato, sembrano incapaci di un incontro autentico fra loro, o forse di concedersi una nuova possibilità. Finché un giorno Michiko scompare improvvisamente, lasciando dei misteriosi haiku… Gabriel e i giovani ospiti della casa sono obbligati allora a conoscersi davvero e ad aiutarsi per ritrovare Michiko prima che gli assistenti sociali si accorgano dell’assenza dell’unico adulto e li portino altrove: sono obbligati a provare a comportarsi come una famiglia. È l’inizio di una ricerca per le strade di Roma e dentro se stessi, ciascuno mettendo a frutto il proprio intuito, le proprie qualità – e portando allo scoperto le proprie ferite. Valerio Principessa dà vita nel suo primo romanzo a un protagonista innamorato delle parole, come lo sono sempre i lettori, e che ai lettori regala, scegliendole con cura dalle lingue più diverse, parole nuove con cui guardare da capo il mondo. Un romanzo d’esordio emozionante, ricco di curiosità e sapere, da cui imparare con grazia. Gabriel è un ragazzo innamorato delle parole, soprattutto di quelle che è impossibile tradurre in altre lingue – come la giapponese Wabi sabi, che esprime l’autenticità dell’imperfezione, o come iktsuarpok, con cui gli Inuit dell’Artico intendono l’irrequietezza nel controllare se qualcuno sta arrivando oltre l’orizzonte. Parole uniche e sole, come solo si sente Gabriel quando muore sua nonna, con cui viveva. Confuso e smarrito, viene accolto nella casa affidataria della signora Michiko in un rione storico di Roma. Si trova così ad abitare sotto lo stesso tetto con ragazze e ragazzi segnati da storie irreparabili, come il piccolo Leo, come Chiara, che conosce le stelle ma non l’amore, o Greta, sempre concentrata a scrivere messaggi al cellulare, come il minaccioso Scar e Amina, con la sua indicibile esperienza di migrazione. Michiko segue i suoi giovani ospiti rammendando le giornate bucate con tazze di tè fumante, dialoghi pazienti, storie di paesi lontani: parole e gesti piccoli che restituiscono la grandezza dell’universo. Fuori c’è il mondo che conoscono, caotico, ingiusto, a tratti violento, ma nella casa della signora giapponese sono al riparo. Finché un giorno quell’armonia si spezza, e i ragazzi d’un tratto si sentono più orfani di prima. Fa male, ma dura poco: presto scoprono di sapersi fidare l’uno dell’altra, di saper fare famiglia. È l’inizio di una ricerca per le strade di Roma e dentro sé stessi, dove ciascuno mette a frutto il proprio intuito, le proprie qualità – e porta allo scoperto le proprie ferite. Un romanzo d’esordio emozionante, ricco di curiosità e sapere, da cui imparare con grazia e gentilezza. Io penso che dopo il passaggio di un amore infelice, o dopo un colpo da levare il fiato, uno dovrebbe semplicemente alzarsi ed essere fiero delle sue cicatrici. La ferita diventa una medaglia al coraggio, il nostro modo di gridare al mondo che abbiamo imparato a resistere. )
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