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Cartesio o Pascal? Un dialogo sulla modernità
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1995
142 p.
9788870116212

Voce della critica


recensione di Sini, C., L'Indice 1996, n. 3

Con questo libro a due voci Ciancio e Perone danno vita, con altri tre colleghi, a una nuova collana di filosofia ("Et et / aut aut") il cui intento è, da un lato, la salvaguardia del carattere speculativo della filosofia, dall'altro la coraggiosa esposizione del pensiero ai problemi di una società come la nostra, che ha incontrato, al fondo del suo processo di secolarizzazione, i paradossi e i tormenti del nichilismo. Ineludibile diviene pertanto il confronto con la nascita del moderno, in quanto radice e origine evidente dell'orizzonte nichilistico in cui ci troviamo coinvolti. Su questa origine Ciancio e Perone si confrontano in un dialogo largamente consenziente e simpatetico, ma non per questo unanime, declinando i due corni dell'alternativa che dà nome alla collana nelle figure emblematiche di Cartesio e di Pascal. In termini molto abbreviati si potrebbe dire che sia Cartesio sia Pascal incarnano quella frattura tra finito e infinito che caratterizza il moderno e la incarnano inclinando il primo all'"et et" e il secondo all'"aut aut"; col che essi segnano e anticipano i due percorsi privilegiati della ragione moderna, riassumibili nella dialettica della conciliazione e nell'antidialettica dell'inconciliabile (Hegel e Schelling, tanto per esemplificare, o Hegel e Kierkegaard).
Discepoli entrambi di Luigi Pareyson, cresciuti alla scuola di un'ermeneutica del finito che presuppone o addirittura impone una decisione preliminare "pro o contro il cristianesimo", Ciancio e Perone non possono che inclinare verso il polo schellinghiano o kierkegaardiano dell'inconciliabilità, e tuttavia lo fanno con modi e stili che segnano, nell'unità, la loro differenza. Non è possibile dar conto qui dei due saggi centrali del libro nei quali Perone espone il suo Cartesio e Ciancio il suo Pascal, salvo sottolineare la notevole qualità filosofica di una rilettura che traduce un luogo storiografico tradizionale in una interrogazione autentica, capace di porre al tempo stesso in questione la natura originaria e profonda del gesto filosofico e la nostra personale partecipazione a esso, il senso del nostro odierno persistere nel fare filosofia e nel dirci, a modo nostro, filosofi. Si può piuttosto tentare di cogliere quella divarcazione tra "et et" e "aut aut" che, programmaticamente assunti, motivano il ritorno a Cartesio e a Pascal quali figure tanto alternative quanto implicantesi della nostra tra-dizione. Divaricazione che il libro documenta sia negli interventi reciprocamente critici dei due autori, sia nella finale discussione che coinvolge altri partecipanti al dialogo (si tratta infatti del protocollo di un lavoro seminariale dedicato tempo addietro ai due saggi centrali di Perone e Ciancio).
In sostanza Ciancio contesta a Cartesio la pretesa di pensare il nesso finito-infinito ancora all'interno dei "criteri razionalistici di verità" (la non contraddizione, l'evidenza, ecc.). È vero che già Cartesio, come mostra Perone, incarna l'essenza del moderno ("la scissione uomo-essere, il primato della libertà e della soggettività, il distacco dalla natura, il rapporto essenziale con il cristianesimo e la desacralizzazione del mondo e del sapere"); ma lo fa recidendo il rapporto personale con la verità e riducendo la filosofia a fondazione preliminare delle scienze, fondazione che, non coinvolgendo i problemi più profondi dell'esistenza, può limitarsi a un gesto preparatorio circoscritto nel tempo.
Non così Pascal, il quale vive drammaticamente e continuativamente l'inconciliabile frattura tra finito e infinito, sino al punto che per lui il nesso di finito e infinito (uomo e Dio), non solo è inconciliabile, ma è addirittura indimostrabile proprio in quanto nesso (contro le pretese "dimostrazioni" di Cartesio). Pascal è così colui che trasmette al moderno il paradosso dell'impossibilità del ritorno al mito, una volta affermatasi la frattura della ragione, e insieme della necessità di ritornarvi come inobliabile fondamento della secolarizzazione e come, si potrebbe dire, testimonianza del nostro essere sempre, malgrado tutto, nella verità, sebbene nella ricorrente figura dell'errore.
Ma Perone sottolinea a sua volta i rischi di una radicalità così drammaticamente alternativa: non la scelta (la "scommessa"), ma la capacità di "tenere la misura" delle opposizioni può davvero coniugarsi con un pensiero del finito, dove il finito non rischi "di essere costretto in una alternativa che gli fa torto". C'è, per così dire, troppo cristianesimo mitologico, e troppo poca storia, nell'aut aut pascaliano. Non nell'alterna-tiva radicale deve stare oggi la filosofia, dice Perone, ma "In una forma di et et" che sappia "dispiegare la finitezza in tutte le sue complesse e conflittuali dimensioni".
Sarebbe bello a questo punto domandare ai due autori se davvero è radicale il paradosso di Pascal (o non invece sin troppo "sensato" e "ragionevole"); e se davvero è rispettosa del finito la "misura" che assuma le opposizioni senza discuterne la genealogia e quindi accogliendole in modo assai poco "razionale". In maniera un po' brutale si potrebbe chiedere se il gesto genealogico di Nietzsche non abbia fatto piazza pulita anche di questi fantasmi e di queste ombre del moderno e se non è appunto questo il nichilismo col quale ci tocca confrontarci.

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