Per due anni, con cadenza quasi settimanale, il fotografo Bepi Ghiotti ha visitato le stanze di Carol Rama, artista torinese nata nel 1918, formatasi nell'entourage di Felice Casorati e solo nell'ultimo decennio, grazie al Leone d'Oro alla Biennale di Venezia 2003 e all'influente endorsement di Cindy Sherman, giunta al riconoscimento del grande pubblico, in verità anticipato nel tempo da quello di colleghi e letterati, da Man Ray a Edoardo Sanguineti. A ogni seduta il fotografo si è imposto di scattare una sola immagine, facendo uso di un'unica fonte di illuminazione (da decenni pesanti tende schermano le finestre della casa di Carol Rama); infine, ultima delle rigide "regole d'ingaggio" di Bepi Ghiotti, le inquadrature sono state fedelmente rispettate in fase di stampa. Ne è risultato un set di novanta immagini, tra le quali sono state scelte quelle che compongono Carol Rama. Il magazzino dell'anima, accurato volume edito da Skira, che è anche sintesi riuscita su vita e opera dell'artista. Lo si direbbe un progetto di fotografia "a programma", concentrato sul processo di produzione delle immagini più ancora che sui suoi esiti, alla maniera "zen", per fare un esempio illustre, del primo Franco Vimercati; ma c'è qualcosa in più, in Bepi Ghiotti, della fotografia come rito, come pratica delle immagini che s'identifica con i gesti che le producono. C'è soprattutto un interesse per il mito, da intendersi come cosmogonia, racconto di un'arché, di un'origine da cui tutto discende. In Sorgenti/Sources (altro progetto concepito sulla longue durée, 2007-2014) le immagini di Bepi Ghiotti rivelano i luoghi in cui sgorgano i grandi fiumi dell'umanità; in Fathers and Sons (2003-2006), il rapporto con l'origine più immediato e insieme più enigmatico, quello tra padri e figli. Che si tratti di fiumi o di umani, l'effetto prodotto dalle fotografie di Bepi Ghiotti è il medesimo, e consiste in quel carattere mediato (nel senso del contrario di "immediato") che Kant attribuiva al sublime. Un sublime rovesciato, in realtà, perché, sulle prime, le immagini deludono le attese: "Tutto qui?", ci si chiede di fronte all'acquitrino da cui scaturisce l'Eufrate, o le banali mattonelle della fontana in cui sono state imbrigliate le acque del Tevere; "Tutto qui?", ci si domanda, di fronte alla speranza delusa di veder squadernato dalla fisiognomica per immagini dell'apparecchio fotografico il segreto di quell'"aria di famiglia" che, come Wittgenstein aveva visto bene, è ciò che di più indefinibile si possa dare. Ma l'effetto "demitizzante" delle fotografie di Bepi Ghiotti lascia presto il posto a un effetto opposto, si direbbe di "rimitizzazione" del quotidiano, per il quale anche quei luoghi così sciatti, o quei volti così comuni, si ricaricano (nel senso della ripetizione e in quello dell'accumulo di energia) di un'aura. È questo l'effetto peculiare dell'immagine fotografica? Parrebbero suggerire di sì, questi interni in cui l'oscurità preme sugli oggetti che sono ritratto di una vita, ma sono contemporaneamente trasfigurati in metafora della camera oscura. Nelle fotografie la pittrice è assente, così come sono assenti le sue opere; sole affiorano alle pareti delle fotografie ingiallite, ma non si tratta (senza eccezione, nemmeno per i ritratti con Andy Warhol!) che di spettri evanescenti svuotati di ogni mitologia. Non si avverte nemmeno il peso di un'assenza, come, ad esempio, nel celebre set di Luigi Ghirri nello studio di Giorgio Morandi: la "casa della vita" di Carol Rama non è proiezione di un io, ma supporto e quasi polmone artificiale in cui respira un'identità che, a dispetto di atteggiamenti spesso provocatoriamente istrionici, si confessa costituzionalmente "precaria". E pur tuttavia, dentro queste fotografie, dentro la precarietà che insidia il respiro delle cose ritratte, si percepisce anche il soffio di un'origine che crea, e creando costantemente si rinnova. Marco Maggi
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