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Cantos romani - Fernando Acitelli - copertina
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Descrizione


"A ben guardare, buona parte dei Cantos sono Xenia: è il posto giusto per XXII e per il suo incipit (ma si può dimenticare La madre di Ungaretti, in ginocchio davanti all'Eterno in attesa del figlio e in maggior attesa che il figlio fosse perdonato?): 'Mia madre è pronta per il presepe ', quasi si trattasse di un segno di riconoscimento per l'aldilà, un fischio che si prova a modulare non nel timore, ma 'nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo' (Montale, Xenia 1,4). Così nei Cantos romani non è detto (è il sospetto che trafigge tutto il libro) se siano più morti i vivi o più vivi i morti. Certi pomeriggi da fidanzati lasciano credere che il limite o il discrimine sia un arbitrio, un punto indecidibile. Da piéton piuttosto che da flâneur, anche da lì sotto, il passo e lo sguardo di Acitelli sono sempre ad altezza d'uomo (con tutte le implicazioni che l'espressione 'ad altezza d'uomo' comporta). Così i suoi versi. E la storia della città, una riscoperta poetica di Roma e delle memorie del suo sottosuolo, è anche un racconto sul corpo e sui corpi che vivono nel loro e del loro stesso disfacimento. Acitelli si muove, come in un film di Godard, con la telecamera a mano; e quanto massimamente, qui, si vede in azione dalla sua memoria di lettore è la grande poesia di Le ceneri di Gramsci: una Roma dove perfino un colpo d'incudine dalle officine di Testaccio diventa oggetto emozionato e straziato di poesia." (dallo scritto di Raffaele Monica)
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Dettagli

ES
2012
23 agosto 2012
Brossura
9788895249797

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alida airaghi
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Storia e cronaca, passato e presente, sacro e profano, vita collettiva e individuale si confondono e compenetrano, in questi versi densi di immagini e di pensiero, vaganti per una Roma concreta dell’oggi, nella sua toponomastica (Via Cairoli, Campo Marzio, il Celio, il Teatro Quirino, Porta Furba, Via Selinunte…), nei suoi bar, nelle basiliche, tra gli sfasciacarrozze e nei negozi eleganti, nei corridoi degli uffici ministeriali o nei cantieri periferici. La città trafficata e pulsante di chi la vive quotidianamente, onorandola o imbrattandola («Porta Maggiore di notte. / Via Giolitti con le sue mignotte», «gli operai esibivano fieri il copricapo di giornale», «un vecchio si distinse per bestemmia», «L’autista del 409 amava il cambio di marcia», «i vecchi passeggiano pettinati, rasati / per bene nella penultima finzione»), tra presenze fantasma di attori scomparsi, e gatti, piccioni, levrieri che si muovono tra le rovine. L’arte antica di Masaccio, Filippino Lippi, Solimena ha lasciato tracce nella pittura novecentesca di De Chirico, Guttuso, Schifano; la politica sporca dei «profittatori di sempre» trova un suo riscatto nella solidità pulita degli affetti domestici; le tombe dei martiri cristiani sono velate dalla stessa malinconia che incornicia le sepolture dei parenti più cari. Su tutto aleggia (mai macabro, e piuttosto ineluttabile, fatalistico) lo spirito del dissolvimento, di una fine a cui ogni esistenza, sentimento, gesto, oggetto è inesorabilmente destinata (i corpi di «Tiberio, Giuliano e Decio», come i mozziconi di sigarette abbandonati sull’orlo dei tombini, o come i peli di barbe e capelli scivolati giù nei lavelli: «Finite dove le rasature degli anni ’30?»). Tuttavia a questo «nulla / da cui veniamo e a cui siamo diretti» Roma, con i suoi millenni di storia, presta uno scenario di fascino particolare, in cui (come suggerisce il postfatore del volume, Raffaele Manica), «non è detto… se siano più morti i vivi o più vivi i morti».

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