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recensione di Puccini, D., L'Indice 1992, n. 9
Il titolo originale di questo libro è "Conversaciones con Bunuel", perché della prima idea che ne avrebbe fatto un vero e proprio romanzo non è rimasta che qualche traccia nelle parole del curatore, il genero di Aub, Federico Alvarez, e nella premessa dello stesso autore. Tuttavia, quel titolo sarebbe dovuto essere "Bunuel: romanzo" (senza articolo), in quanto ispirato al libro di Louis Aragon, "Matisse: romanzo", come spiega sempre Alvarez. Nelle vesti di romanzo sarebbe dovuto apparire, se Max Aub non fosse morto (1972) prima di terminarlo. Così, del resto, me ne aveva parlato lo stesso Aub quando lo andai a trovare nella sua casa di Città del Messico, nel 1968. "Questo libro - egli scrive nella premessa - non può che essere che un romanzo in più: identico a quelli che ho già scritto: un sacco di ritagli, di ricordi, di battute, di fatti, svuotati sul tappeto della propria epoca". Insomma, la cronistoria romanzata di una generazione gloriosa e straordinaria.
Ma che poteva fare Alvarez quando si è trovato davanti a più di un centinaio di cartelle che contenevano circa cinquemila fogli scritti a macchina, i quali non avevano certo la struttura che l'autore voleva imprimervi o risultarne? Il curatore dovette ripiegare sulla possibilità di mettere insieme un libro che riunisse le conversazioni che Aub aveva avuto con Bunuel e con ben 48 persone, tra cui molti parenti del regista e molti suoi amici e collaboratori, nel cui numero indistinto spiccano i nomi di Francisco Garc¡a Lorca, fratello del poeta, di Rafael Alberti (interrogato in un Ferragosto imprecisato, a Roma), di Louis Aragon, di Salvador Dali e di Fernando Rey, suo attore preferito. A sua volta la mole stessa del libro ha costretto la casa editrice Sellerio a una versione ridotta, da cui risultano tagliate fuori le circa 400 pagine appunto di tali interviste a parenti, amici e collaboratori. Peccato!
Di una certa incompiutezza, la stessa di cui parla Alvarez, il curatore, sono rimasti evidenti segni nel libro anche nella parte selezionata dalla casa editrice italiana, della quale dobbiamo dire anche in questo caso, nonostante i tagli, tutto il bene possibile solo per averlo stampato. Vi sono alcune ripetizioni e molti brani rimasti allo stato grezzo e pochi indizi di quello che doveva essere il disegno complessivo del libro. Come che sia, esso mantiene però il suo fascino tanto "discreto" quanto incontestabile non solo perché le confessioni del grande regista appaiono qui particolarmente variate e penetranti, minuziose ed essenziali, ma anche perché è raro cogliere un così grande affiatamento e una così grande affinità, persino d'ironia e di ideologia, tra due personalità artistiche di altissimo rilievo, sicché il dialogo tra i due finisce per scavare più in profondo di quanto non sia mai riuscito a un giornalista intervistatore o a un biografo sia pure informato e intelligente. E se Aub è molto meno noto di Bunuel, il lettore di queste righe potrà saggiarne il valore anche dalla recensione che qui dedico a un altro libro stampato anzi ristampato di recente pure questo da Sellerio, nonché in quei pochi che, già tradotti in italiano, li vengono enumerati.
Il libro è denso di nuove illuminazioni sul personaggio e sul lavoro di Bunuel. Ma prima di esemplificarne alcune, mi permetto di notare che la lettura di questa sorta di "romanzo" bellamente fallito o di ritratto di regista riuscitissimo è resa meno facile dalla mancanza di riferimenti relativi a persone spesso citate solo per nome (soltanto qualche volta Aub mette tra parentesi cognome e qualifica) e a circostanze poco note a un lettore non spagnolo. A ciò, inoltre, si aggiungono alcuni vuoti di traduzione: come quell'Amberes che è il nome spagnolo di Anversa; o "scenario" che sta, è ovvio, per sceneggiatura; o Amerigo Castro che è Américo Castro; o quella citazione de "La distruzione o l'amore" (p. 24) definito da Aub "uno dei migliori libri del nostro tempo", che messa lì senza dare alcuna indicazione del suo autore (il premio Nobel Vicente Aleixandre) lascerà perplessi molti lettori italiani.
La presenza di alcune note esplicative (che, secondo me, non guastano mai) avrebbe aggiunto sapore alla saporitissima materia del libro. Che sta, prima di tutto, ad esempio, in alcune confessioni autobiografiche: come quella relativa alla morte del padre, di cui Luis indossa subito le scarpe e i vestiti, che è raccontata con una delicata patina di dolore e d'ironia; o caffe certi ricordi del paese natio, Calanda, dove, durante la guerra civile, fu dichiarato l'amore libero, o quelli d'un paese vicino dove buttarono la statua della Vergine nel fiume quando, invece della pioggia, l'adorata immagine fece arrivare una disastrosa grandinata... Ma sta anche in alcuni rapidi ritratti ora di Lorca, ora di Gide, ora di Dal¡, ora di Gala (moglie prima di Èluard e poi dello stesso Dal¡) e meglio ancora nei lunghi commenti e dettagli relativi a "Un chien andalou" e alla "Via Lattea" (di cui Aub sottolinea, con l'approvazione di Bunuel, la derivazione picaresca) e ancora nelle ripetute dichiarazioni di fedeltà, fino all'ultimo film, al surrealismo, del quale il regista sottolinea "la linea morale" oltre che politica, escludendo per questo da quel novero tanto Lorca, quanto Alberti quanto Aleixandre. E a questo punto risulta importante un suggerimento di Aub, che vede in "Un chien andalou", per esempio, una forte derivazione espressionista derivante tanto dall'influenza di Fritz Lang quanto dello stesso Ram¢n G¢mez de la Serna, da cui del resto v'angore tante indicazioni non solo a Bunuel ma a tanti altri scrittori di lingua spagnola, ivi incluso (ed è stato detto poco) allo stesso Garc¡a M rquez. Sempre alle "provocazioni" di Aub si devono due altre osservazioni, entusiasticamente fatte proprie da Bunuel: che i suoi film sono il risultato di "un universo di esempi" o di gag, dati in pasto agli spettatori perché ne traggano essi stessi ciò che meglio o più profondamente ne pensano; o che l'Angelo sterminatore ha un "piede in un disegno grottesco di Goya". Infine è Aub che segnala a Bunuel le tre personalità che più lo influenzarono: Lorca per avergli "aperto il mondo dello spirito"; Fabre, "che gli fece scoprire gli insetti" e Sade, che gli "rivelò un mondo totalmente insospettato". E Bunuel approva. E poi aggiunge, dopo aver notato che era difficilissimo trovare i libri di Sade: "... Fu il primo ateo, il primo grande ateo del mondo fu Sade, mettendo da parte Eraclito e qualcuno di quei greci di cui sappiamo ben poco. Mi diceva Vaillant che Lenin gli aveva detto che Sade era stato il primo grande materialista della storia. Dal punto di vista filosofico e morale non c'è nessuno a cui si possa paragonare. A me fece un'impressione incredibile. La prima copia che ebbi tra le mani fu quella di Tual, che me la prestò una sera in cui cenavamo con Desnos". È qui Aub gli chiede in che ordine lo lesse. "Primo, "Le centoventi giornate"; poi "Justine", "Juliette" e il "Boudoir"". Subito dopo Bunuel si lascia andare al racconto di uno dei tanti aneddoti che rendono la sua conversazione inimitabile e scintillante: la storia del suicidio di Crevel, i cui libri di Sade qualcuno aveva trafugato nel giorno dei suoi funerali, dalla sua biblioteca...
Le dichiarazioni di altri personaggi, raccolte da Aub, avrebbero aggiunto, come dicevo, molte osservazioni ghiotte: a un padre gesuita, Artela Lusuviaga, sono da attribuire, ad esempio, alcuni cenni alla "Via Lattea" (il film più difficile di Bunuel) ed anche l'insistenza sui legami con Breton e Dal¡, di cui peraltro sono ricche già le pagine del libro; o ad Alatriste, suo produttore e aiutante in Messico, molti particolari fin qui poco noti. Ma, ripeto, il libro serve a conoscere meglio Luis Bunuel e a capire di che pasta è fatta tutta la gente che lo aveva, in un certo senso, "fatto" e contornato.
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