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Bruckner - Sergio Martinotti - copertina
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Descrizione


Anton Bruckner è oggi considerato tra i massimi compositori della seconda metà dell'Ottocento, e le sue composizioni sinfoniche, accanto a quelle di Mahler, sono nel repertorio di ogni orchestra sinfonica. In questo volume Sergio Martinotti racconta l'enigmatica vita di un uomo schivo, che cercava di nascondere la propria complessa psicologia dietro una maschera da "compositore di provincia", spiegando al tempo stesso, con dovizia di esempi musicali, l'arte di un compositore ammirato dalla Vienna splendente e cosmopolita di fine secolo, amico di Richard Wagner e considerato da Gustav Mahler come un maestro.
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Dettagli

EDT
2003
5 settembre 2003
XIII-283 p., ill. , Brossura
9788870635225

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Antonio
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Un'opera fondamentale per comprendere in modo completo la miracolosa parabola del grandissimo maestro di Ansfelden. Il libro, sapientemente impostato dal professor Martinotti, non trascura neppure un aspetto della placida e feconda esistenza del geniale Anton Bruckner, offrendo al lettore, oltre che un imponente bagaglio di informazioni socio-biografiche, anche e soprattutto un prezioso compagno di viaggio, da interpellare di pari passo con l'ascolto. Un sentito grazie!

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Voce della critica

Il 1946 è l'anno in cui un giovanissimo Sergio Martinotti incontra la musica di Anton Bruckner: si compie così una sorta di destino elettivo. L'Europa suicida è ancora fresca di sepoltura ma serpeggia la voglia di ricominciare: il 18 ottobre dello stesso anno Nino Sanzogno dirige l'Orchestra sinfonica di Torino della Rai nella Settima Sinfonia del Maestro di Ansfelden. È soprattutto nella mente e nello spirito di quel giovane, valorosamente sostenuto dal suo compagno di battaglia Giorgio Vigolo, che irrompe il desiderio di rendere giustizia a uno dei più grandi compositori di fine Ottocento troppo presto etichettato, soprattutto in Italia, come "epigono wagneriano". Sarebbero passati dodici anni perché Martinotti, Vigolo, Basso e pochi altri vedessero riconosciuti i loro sforzi musicologici presentandone i risultati nel primo "Bruckner-Simposium" italiano (Genova, 1958).

Il saggio di Martinotti contiene non soltanto la disamina musicologica ineccepibile e completa dell'intera opera bruckneriana (anche di quella vocale sacra, così spesso colpevolmente ignorata), ma anche il dettagliato resoconto di quella battaglia di cui egli fu l'alfiere più convinto ed appassionato (nel capitolo "Bruckner nella vita concertistica e nella critica italiana").

Ineccepibile quanto esauriente è anche la ricostruzione storico critica della questione che vide coinvolte le opere sinfoniche del compositore austriaco nei loro continui e insidiosi rimaneggiamenti (l'autore ancora vivente o appena defunto) da parte di Franz Schalk e di Ferdinand Löwe: era iniziata così la triste epoca in cui un compositore finiva invischiato nelle reti dei direttori d'orchestra tuttofare, quasi forzato ad accettare compromessi disonorevoli e incomprensibili relativi alla sua stessa arte compositiva (presunta incapacità di autentico sviluppo tematico, elefantiasi della concezione musicale, orchestrazione al limite del banale, lunghezza improponibile dei 'Finali' etc.).

Nella durissima lotta viennese fra i partigiani di Wagner e quelli di Brahms, orchestrata in modo maldestro e capzioso da Eduard Hanslick, il povero Bruckner fece la fine del vaso di coccio fra quelli di ferro: la sua natura e il suo carattere lo facevano artista 'fuori dal mondo' e, nondimeno, amaro conoscitore di quello stesso mondo che la modernità stava esprimendo e preparando.

In quanto erede tecnico e spirituale a tutto tondo di molte tradizioni musicali, dalla polifonia diatonica del Circolo Ceciliano a quella modale luterana di Bach, dal percorso sinfonico di Beethoven e Schubert alla concezione armonistica di Liszt e Wagner, tutto sembrava fare di Bruckner un 'epigono' trascurabile. Scopriamo così come anche lo stesso mondo austro-tedesco fosse inizialmente non poco infastidito dalla singolarità dell'organista di Sankt Florian, prodigioso Maestro dell'improvvisazione organistica: inquietavano la sua capacità di creare silenzi puri che interrompevano il flusso formale della composizione sinfonica, il suo personalissimo senso della costruzione a metà fra l'estetica gotica e quella barocca, il 'misticismo' (schopenhauerianamente involontario) espresso nella ricerca di spazialità delle sue combinazioni sonore e timbriche. Insomma, e in poche parole, infastidiva la profonda originalità artistica ed umana di questo musicista cui Sua Maestà Apostolica Franz Joseph concesse di terminare questa vita in un piccolo alloggio, destinato di solito ai custodi, al pianterreno dell'ala esterna del palazzo del Belvedere.

Martinotti non tarda a segnalare, in sede biografica, che il musico provincialotto giunto a Vienna dall'Austria Superiore non aveva trovato soltanto nemici all'interno del Conservatorio: oltre allo sventurato allievo Hans Rott (suicida nel 1884), aveva trovato altri tre giovani paladini entusiasti in Rudolf Krzyzanowski, Hugo Wolf e Gustav Mahler. In particolare gli ultimi due, con le parole e con l'azione concreta, dimostrarono nei confronti di Bruckner non soltanto affetto ma una sorprendente facoltà di riconoscimento della sua dimensione artistica.

Riguardo al rapporto fra Bruckner e i contemporanei, Martinotti osserva mirabilmente: "Tutta la storia musicale che lo circondò, che lo nutrì, si riguadagna non con l'intelligenza organizzata o con la scaltrita dottrina, ma con l'ingenuità di una disposizione naturale e intuitiva che sa accogliere e proiettare in una dimensione cosmica l'eco difforme di quel passato che non ha volto se non lo si guarda, ma che tutte le volte che lo guardiamo ha mutato volto". Un tale pensiero non può che richiamarne tragicamente altri; quelli di colui che, assieme a Oswald Kabasta, fu uno dei massimi interpreti bruckneriani di sempre, ossìa Wilhelm Furtwängler: "La questione del significato di un'opera e di un uomo nella storia è più importante di quella del significato che essi hanno per noi, uomini d'oggi. [...] Questo andar ponendo questioni di collocazione storica non sembra forse aver pervaso così profondamente il nostro pensare e il nostro sentire, che - conseguenza davvero degenere - non osiamo più essere noi stessi, cominciamo seriamente a dubitare di noi stessi? Questa condizione è veramente l'unica che, considerata storicamente, non si fosse ancora mai vista nello scorrere dei tempi. Non ha altro significato che questo: non v'è più nulla per l'uomo d'oggi che sia veramente decisivo, obbligante, nulla che ne sia veramente l'espressione, nulla dinanzi a cui ed in cui egli riconosca se stesso. Non incontra più nell'arte il linguaggio del suo destino. E' così che l'arte è diventata intrinsecamente superflua. Essa è alla fine" (Discorso alla Deutsche Bruckner Gesellschaft, 1938). Per sua fortuna, ad un uomo ed un artista come Bruckner fu risparmiato di vivere nel Ventesimo secolo (e oltre): poteva ancora permettersi di offrire le proprie creazioni ad una sua Divinità mai confessionalmente schierata e 'protettrice' per secoli di tante generazioni di musicisti.

Davide Bertotti

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