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Non posso fare a meno di concordare con Lucio D’Arcangelo sui pericoli che sta correndo la nostra lingua, in una evoluzione che assomiglia però più a un imbarbarimento che a un naturale ed equilibrato progresso. E’ in quest’ottica che l’autore ha scritto questo breve testo, che ha chiamato Breviaro d’italiano, sottotitolato “18 punti per salvare la nostra lingua”. Esagerazioni, timori infondati? Assolutamente no, perché purtroppo è sotto gli occhi di tutti, ma soprattutto di chi ama il proprio paese e la propria lingua che è in atto una progressiva spersonalizzazione che ne fa perdere i caratteri basilari, dando luogo a un linguaggio sgrammaticato, con un abuso ingiustificato di anglicismi. In particolare, l’inglese è diventato una sorta di latinorum, di pessimo gusto, adatto a tutti gli usi e le occasioni. Ed ecco che si scopre che sono circa 6.000 gli anglicismi in uso nella nostra lingua, quasi sempre del tutto inutili, perché vanno a sostituire termini già esistenti. Che senso ha ricorrere al vocabolo share quando già, assai più comprensibile nel significato, abbiamo il termine quota? E perché, per una momentanea sosta nel lavoro, non diciamo più “facciamo una pausa”, ma quasi ci ingrassiamo a dire “facciamo un break”? E come sta sparendo nell’uso comune il congiuntivo, incorrendo peraltro in grossolani errori, questo popolo di santi, di navigatori e di storpiatori di parole si è inventato anche dei neologismi in sostituzione di termini da sempre usati, forse per gratificare di ben altra considerazione attività che restano sempre del tutto manuali, ma più che necessarie e dignitose. Del resto, di pari passo con lo svilimento della lingua si nota una sfilacciatura dell’unità nazionale, non più cementata da un idioma comune. “Ahi serva Italia, di dolore ostello”, giusta invocazione di Dante, ma questa volta gli italiani non sono servi d’altri, ma di se stessi, bambini non cresciuti che scimmiottano i grandi.
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