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ottima biografia peccato perderla.
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Ci sono vite che presentano "sequele naturalmente romanzesche", come ha scritto Franco Cordero a proposito di Savonarola. La vita di Bonifacio VIII è una di queste e Paravicini Bagliani, uno dei massimi esperti di storia pontificia, gli dedica una biografia critica e impegnata. Diacono di non rapida carriera, a trent'anni ancora canonico a Todi (1257-1260), Benedetto Caetani vanta pochi appoggi in curia, ma ne approfitta per studiare. Coltissimo nel diritto che aveva appreso a Bologna, trasferisce queste competenze amministrative quando si trova a curare degli affari di curia come notaio del papa nel 1270. Cardinale-prete nel 1281, più volte inviato come ambasciatore in Francia e in Inghilterra in missioni diplomatiche delicate, nel 1294 vota per l'elezione del vecchio e instabile Pietro da Morrone a papa, il famoso Celestino V. Ne è anche consigliere, ma è ai suoi antipodi per capacità di pensiero e di governo. Si accorge subito che Celestino è debole: si fa abbindolare dagli Spirituali Francescani, cede benefici senza controllo, non ha la minima idea di che cosa sia la Chiesa. Probabilmente Benedetto lo esorta a seguire la sua vocazione di eremita, rassicurandolo circa la liceità delle dimissioni del papa. Da qui la rinuncia di Celestino, che provocò dissensi molto aspri nella curia e nella pubblica opinione del tempo.
Nel conclave, celebrato subito dopo a Napoli, Benedetto si impone a tutti: eletto papa inizia un pontificato di "guerra". Guidato da un'idea altissima del potere del papa come istituzione (capo della Chiesa) e come persona, si muove in tutte le direzioni, a incominciare dalla difesa violenta della propria legittimità come papa. La morte misteriosa di Celestino-Pietro nel castello di Fumone, formalmente sotto la sua protezione, ne aveva indebolito ulteriormente le basi. Con la lotta contro i Colonna, che lo avevano sfidato nei propri domini di famiglia, entra in un periodo difficile. Nel 1297 Bonifacio usa il tribunale dell'Inquisizione per sequestrare i castelli dei Colonna e distruggerli. Inaugura con ardita spregiudicatezza una politica delle immagini che gli si ritorse contro con accuse di istigazione all'idolatria. Nel 1300 promuove il giubileo, famoso anche per il floridissimo mercato delle indulgenze. Ma alla fine del 1301 apre una vertenza con il re di Francia Filippo il Bello che cresce rapidamente di intensità: le posizioni si irrigidiscono subito e Bonifacio sceglie questo conflitto per assestare in via definitiva la sua idea di potere papale. La bolla Unam sanctam afferma in sostanza la superiorità naturale del potere papale; ma quando queste argomentazioni sono rivolte alla disputa con Filippo il Bello la rottura è inevitabile. Prima che Bonifacio faccia in tempo a pubblicare la bolla di scomunica del re, l'avvocato regio Gugliemo???di Nogaret entra in Anagni e prende prigioniero il papa che, trasferito a Roma, muore dopo pochi giorni (ottobre 1303).
Una vita burrascosa, che Paravicini Bagliani ha ricostruito orientandosi nella fitta trama di fonti diversissime, che secondo l'autore risultano tutte costruite con evidente impianto ideologico sia che accusassero sia che difendessero il papa. Ma il dialogo di Paravicini è particolarmente serrato con una serie di testimonianze raccolte nel corso dei numerosi processi intentati contro il papa, da vivo e soprattutto da morto: processi editi e commentati da padre Jean Coste (Boniface VIII en procès, Roma L'Erma, 1995, e a Jean Coste è dedicato giustamente il libro di Paravicini). Il confronto con le carte giudiziarie forse era inevitabile, perché i processi ricostruiscono a posteriori una vita parallela di Benedetto-Bonifacio sotto il segno di una violenta accezione del potere pontificio, di un comportamento dissoluto, di credenze ereticali e pratiche stregonesche.
Ma come tutte le ricostruzioni giudiziarie la "vita" di Bonifacio è un gioco di riflessi difficile da semplificare. Qui alcune scelte dell'autore meritano un commento critico. Paravicini, come molti prima di lui, sceglie la via diretta della confutazione, accusa per accusa, episodio per episodio. I processi, specialmente le testimonianze raccolte nell'inchiesta del 1310, non lasciano niente di scoperto: dai primi passi a Todi (accusa di incredulità e di sodomia), allo studio a Spoleto (con un maestro eretico) alla famosa questione delle dimissioni di Celestino, non si trova atto della sua vita sul quale non gravino le ombre dell'incredulità, di credenze eretiche e di pratiche demoniache. Paravicini usa una critica della verosimiglianza per smontare queste accuse e nel corso di tutti i capitoli confuta quelle che gli sembrano invenzioni stereotipate (soprattutto le testimonianze "dialogate" che gli sembrano più chiaramente costruite a posteriori), ricostruisce le esagerazioni di cose vere o di comportamenti verosimili secondo i dati incrociati con altre fonti. Per ogni accusa ricerca quello che di reale poteva esserci, in una forma così sistematica da rasentare a volte toni apologetici nella ricostruzione (ipotetica) del "vero" carattere di Bonifacio VIII.
Dalle sottili analisi di Paravicini deriva l'impressione di un grande complotto elaborato a posteriori dai cardinali Colonna con l'appoggio della corte francese. Una damnatio memoriae lungamente perseguita dagli ambienti curiali che Bonifacio aveva castigato e che ora, nel miscuglio indissolubile di mezze verità e di menzogne, trovano la loro agognata vendetta. In sostanza, Paravicini fa mostra di considerare come vere e proprie inchieste gli atti del 1310, per dimostrare che in realtà le accuse sono false. Indubbiamente nei singoli casi questo procedimento porta a risultati interessanti e lo smontaggio delle accuse è comunque doveroso quando si affrontano fonti così controverse.
Manca tuttavia un quadro d'insieme delle ragioni storiche di quei processi, della loro natura di documenti politici a sostegno di una nuova visione del potere regio. È all'interno della corte di Filippo il Bello, più che nella dispersa curia romana, che dobbiamo trovare l'origine dell'accusa. Il processo di Bonifacio è infatti un processo politico, il primo forse, di quella lunga serie di causes cèlebres che accompagna l'ascesa inarrestabile della monarchia francese lungo il primo ventennio del Trecento. Per inquadrare il caso di Bonifacio dovremmo seguire, per paradosso, un procedimento opposto a quello scelto da Paravicini: sapere che come documenti giudiziari i processi possono essere falsati, ma che sono "veri" come documenti politici. D'altra parte la cronologia delle accuse va in questa direzione. Le prime accuse contro Bonifacio del 1297 a opera dei cardinali Colonna si limitano a rifiutare la legittimità dell'elezione di Bonifacio a papa, oltre ad avanzare il sospetto di omicidio di Celestino.
Per avere una svolta radicale delle tipologie di accuse dobbiamo attendere la grande riunione del 14 giugno 1303 al Louvre, convocata da Filippo il Bello come risposta agli attacchi durissimi che Bonifacio aveva portato alla corona di Francia. Davanti ai grandi del regno e al re, il giurista di corte Guillaume de Plaisians, forse allievo di Nogaret a Montpellier, presenta un atto di accusa formale di ventotto capi d'imputazione, tutti sotto l'accusa generale di eresia, che si articola in almeno quattro grandi settori: incredulità, (contro l'eucarestia, l'immortalità dell'anima e la verginità della madonna), culti demoniaci (è qui che viene menzionato per la prima volta il "demone personale" di Bonifacio), sodomia (con uomini e donne) e attentato al regno di Francia (congiure con il re d'Inghilterra e con l'imperatore tedesco per far guerra alla Francia). Ora l'insieme di queste imputazioni non è casuale e nulla deve all'influenza dei Colonna, come forse lascia supporre Paravicini.
Prima ancora di rappresentare accuse processuali da provare (e quindi da verificare a posteriori) i capitoli costituiscono gli elementi primari di un nuovo linguaggio politico-giudiziario su cui si fonda la costruzione del potere monarchico. Un linguaggio, che, come ha dimostrato tra gli altri Jacques Chiffoleau, si caratterizza proprio per la creazione del reato "occulto" come massimo reato politico, in cui l'eresia, la stregoneria (l'intervento di forze demoniache) e l'omosessualità (il nefandum indicibile) concorrono a creare un'unica grande minaccia all'ordine naturale terreno. Il re doveva rompere questa barriera, mostrarsi superiore alle forze occulte, sradicarle, sconfiggerle nel nome della fede e di una majestas che appariva sempre di più come un potere quasi sacrale che avvolgeva il re. Il processo a Bonifacio costituì il primo banco di prova di questa nuova strategia regia.
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