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Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla varietà dei capitalismi - Ronald P. Dore - copertina
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Dettagli

1990
17 settembre 1990
XX-368 p.
9788815027726

Voce della critica


scheda di Enrietti, A., L'Indice 1991, n. 2

Da alcuni anni non mancano libri sul Giappone, in particolare sul suo sistema economico, dimostratosi vincente nell'ultimo ventennio, e sul suo sistema organizzativo a livello di impresa: si tratta prevalentemente di letteratura manageriale su 'just in time', 'kanban', qualità totale... In questa letteratura i riferimenti ai "valori" della società giapponese, alle "motivazioni" che supportano il lavoro e le relazioni industriali svolgono solo un ruolo di contorno. Il contributo di Dore rappresenta invece un deciso salto in avanti, da un lato perché colloca al centro dell'analisi il sistema-Giappone nel suo complesso, piuttosto dell'azienda-Giappone e affronta proprio i problemi delle motivazioni e dei valori che reggono la società giapponese; dall'altro perché affronta esplicitamente il tema dell'esportabilità del modello giapponese, giudicato possibile, fornendo quindi suggerimenti e indicazioni sulle necessarie trasformazioni nelle società occidentali. Lungo questa linea si colloca anche l'introduzione di Michele Salvati che problematizza per il lettore italiano alcune questioni poste da Dore, in particolare la necessità di riconsiderare il ruolo della meritocrazia nel sistema scolastico e il tema del consenso, piuttosto del conflitto, all'interno dell'impresa, consenso che in Italia - in situazioni come la Fiat, sul tema della qualità totale - viene richiesto come un a priori, senza che però si pongano in discussione i principi che reggono le attuali relazioni industriali di tipo conflittuale.


recensione di Lama, L., L'Indice 1991, n. 7

"Bisogna prendere il Giappone sul serio" è il titolo del libro di Ronald Dore. Bisogna prendere sul serio non solo il Giappone ma il contenuto del volume, poiché per giudicare bisogna conoscere e la conoscenza della situazione giapponese è per molti di noi, anche di quelli che vi sono stati, sempre troppo superficiale. Penetrare il mistero del Giappone, le ragioni profonde del suo straordinario exploit industriale ed economico in questo dopoguerra, una resurrezione per molti versi inesplicabile dopo le distruzioni immani e le umiliazioni "patite" a seguito del secondo conflitto mondiale, è per noi occidentali un interrogativo al quale è difficile dare risposte; e Dore qualche risposta la dà.
Io stesso dunque esprimo un'opinione, e lo faccio, non sull'utilità della lettura del libro - che è fuori discussione - ma su qualche tesi sostenuta dall'autore. Ho visitato il Giappone, anche se solo per qualche settimana, ho avuto contatti con i sindacati giapponesi e ho visitato fabbriche, parlando con i lavoratori e con i loro rappresentanti. Ho letto tutto ciò che mi capitava in mano su quel paese. Ho compreso le ragioni dell'estrema debolezza del sindacato o meglio del sindacalismo "generale" giapponese e ho riflettuto, cercando di cogliere le radici culturali, sulla mentalità, sul modo di pensare di coloro che in Giappone rappresentano i lavoratori. Ho tratto la conclusione, per molti aspetti diversa da quella di Dore, che il costume, il pensiero di base su cui si costruiscono in Giappone la funzione del sindacato e la difesa dei lavoratori sono davvero molto diversi da quelli che la storia sociale ha alimentato nei paesi occidentali. Noi partiamo dal presupposto che fra lavoratori e padroni esistano coincidenze di interessi ma che, specie nella distribuzione del reddito prodotto e quindi nei modi per realizzare il massimo dell'efficienza aziendale (organizzazione produttiva, ecc.), le posizioni delle parti sono nettamente distinte e spesso contrastanti. Ciò vale ugualmente per quei paesi occidentali nei quali esistono sindacati classisti o sindacati corporativi o sindacati a struttura essenzialmente aziendalistica. In Giappone invece si realizza una vera e propria interazione tra le ragioni dell'impresa e quelle dei lavoratori, con una innegabile subordinazione, senza neppure l'aspirazione ad una parziale autonomia da parte dei lavoratori. Si tratta naturalmente di concetti generali, che ammettono eccezioni soprattutto individuali, ma il modo di pensare che ho schematicamente descritto mi è parso largamente dominante.
So bene, come descrive minutamente il Dore, che nella società giapponese alcuni servizi fondamentali vengono offerti alla popolazione, specie quella giovanile, per una qualificazione la più alta possibile nelle scuole, nella cura permanente della professionalità, nelle università. Non c'è dubbio che i giovani giapponesi sanno molte più cose, e con maggiore profondità e rigore, di quante non ne sappiano i nostri ragazzi. Per converso, la fedeltà all'impresa, conseguita normalmente con l'anzianità di servizio e quindi col crescere dell'età, viene particolarmente compensata, con dislivelli salariali e di carriera tutti miranti ad incentivare comportamenti di dedizione quasi sempre acritica alle tesi aziendali. È vero che ai lavoratori giapponesi viene chiesto assai più che in Italia un contributo specifico a molti aspetti dell'organizzazione del lavoro. Ma come ignorare il fatto che ciò avviene per segmenti dell'organizzazione produttiva, quelli generalmente riguardanti l'interessato, prescindendo sempre dall'idea generale concernente la produttività, il mercato, il profitto, gli investimenti strategici, monopolio delle gerarchie supreme dell'azienda che mantengono le proprie scelte al riparo da qualsiasi potenziale antagonismo operaio.
In sostanza credo che si possa dire che anche i servizi più efficienti forniti da una direzione politica strettamente integrata alla grande industria e un'amministrazione efficiente e scrupolosa si propongono come finalità il successo dell'impresa, oggi, a livello mondiale. E che sia così è dimostrato dal fatto che altri servizi, miranti a migliorare la condizione di vita dei lavoratori al di fuori dell'impresa rimangono a livelli nettamente inferiori a quelli di cui dispongono i lavoratori dei nostri paesi. Chi visita le case dei lavoratori a Tokyo, a Yokohama, Kyoto, si rende facilmente conto del divario che esiste, anche se si vuole tenere conto del costume certamente molto diverso dal nostro che ispira il gusto e i desideri dei cittadini del Sol Levante. Analogamente si può ragionare su altri aspetti della vita materiale della popolazione lavoratrice, come la sicurezza sociale molto spesso affidata a privati e assai meno prodiga di quanto non lo sia da noi. In questo campo si possono facilmente constatare le conseguenze negative dell'assenza o della debolezza di forze politiche ispirate alla difesa dei più deboli, deboli che esistono e come! anche in Giappone. Il fatto è che in quel paese gran parte dei deboli, che uniti in partiti o sindacati - come è avvenuto in Italia, in Gran Bretagna e anche negli Stati Uniti- avrebbero potuto conquistare riforme sociali importanti, finiscono per essere distolti da questo obiettivo nella concezione che io sintetizzo con una formula, se si vuole, rozza, ma chiara: "Siamo tutti nella stessa barca e bisogna remare".
Di un mio viaggio in Giappone ricordo lucidamente un'esperienza: andai a visitare una fabbrica di orologi, poco lontano da Tokyo, una di quelle fabbriche che con il loro prodotto hanno invaso il mondo intero, prodotto di qualità, non lo nego, e a prezzi bassi. Ho visto lavorare un reparto di montatori, ermeticamente isolati per mantenere all'interno dell'ambiente di montaggio un'aria priva di pulviscolo e assolutamente asettica. Ho osservato per un quarto d'ora almeno il lavoro di quelle venti persone, uomini e donne. Essi lavoravano tutti col microscopio e raccoglievano con pinze quasi invisibili dal nastro trasportatore i minuscoli pezzi dell'ingranaggio da montare. In un quarto d'ora solo pochi - due o tre di quei lavoratori - hanno alzato l'occhio appena per un momento dall'oculare del microscopio che usavano per scegliere i pezzi. Vorrei sapere quale lavoratore dei nostri paesi si assoggetterebbe a quel tipo di lavoro, certamente stressante e insopportabile. Per capire la differenza bisogna tenere conto che, a quei ritmi, in quelle condizioni, i giapponesi lavorano ogni anno 400 ore più di noi.
Io credo che la vera questione a cui si deve rispondere prima di tutto per giudicare la bontà di un sistema, l'accettabilità o meglio la trasferibilità di una cultura, sia la qualità della vita che ne risulta. Uscendo da quella fabbrica mi sono chiesto: "Ma quale vita è questa?" Ecco perché indipendentemente da principi democratici, dall'analisi dei valori che poi si potrebbe fare sui diversi modi di concepire l'azienda, la produzione e la produttività di un sistema, reputo che la vita dei lavoratori dei nostri paesi, con tutte le sue angustie e i suoi problemi, sia più gradevole e accettabile di quella che è assicurata in Giappone, nonostante l'enorme capacità espansiva rappresentata dall'economia di quel paese.
Insomma, la ragione dell'organizzazione degli uomini in società non è, non può essere, quella del formicaio, quella della pura riproduzione. Il livello e la qualità della vita, in tutti i suoi aspetti, anche quelli culturali, che garantiscono, oltre alla sussistenza, la dignità dell'uomo e la sua libertà, non possono essere messi in secondo piano nella valutazione di un modello sociale. L'eccessivo individualismo esistente in occidente può combattersi con lo spirito di solidarietà, e con la coscienza degli interessi generali anziché con una cultura aziendalistica che colloca ideologicamente e materialmente i lavoratori in posizione subordinata rispetto alle controparti. E non è detto che il raggiungimento dell'efficienza produttiva, valore sociale anch'essa, possa essere conseguito soltanto a un prezzo così alto. Ci sono esempi, da noi che dimostrano il contrario.
Ciò non significa che dall'esperienza del Giappone gli occidentali non abbiano molto da imparare, per ciò che riguarda l'organizzazione amministrativa, il miglioramento di alcuni servizi importanti, la coscienza civica della comunità, ecc. Ma tutto ciò deve avere come obiettivo l'interesse generale e i diritti del singolo, a partire dalla difesa dei più deboli, di coloro che non hanno la forza, da soli, di far valere le proprie ragioni. Da questo punto di vista, il libro di Dore mi porta a concludere che la sua analisi attenta e puntuale della situazione giapponese dimostra che i valori nei quali crediamo - che non possono tramontare perché tramontano modelli impossibili di società perfette - sono assai meglio difesi da noi che in Giappone, anche se gran parte della popolazione di quel paese non ne è consapevole. Perché non domandarsi se anche questo fatto non dipenda, non solo dalla tradizione e dalla storia, ma dagli interessi di chi tiene il coltello dalla parte del manico?

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