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Anni Settanta. Un decennio di fotografia militante
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2010
27 luglio 2010
180 p., ill. , Brossura
9788877071132

Voce della critica

Tempi strani, questi, per sfogliare un libro fotografico sulle mobilitazioni politiche e sociali di quarant'anni fa. Si rischia di provare un senso di disagio, come a scoperchiare un pozzo di ricordi e documenti di un periodo che oggi molti, anzi moltissimi, evocano con arcigna disapprovazione se non aperta esecrazione. Ma qualcuno ci prova. Dario Lanzardo, militante storico della sinistra torinese e affermato e apprezzato fotografo e scrittore, ha provato a gettare un sasso nelle acque stagnati del presente, raccogliendo in un volume 100 foto fra le migliaia – credo – scattate nel periodo che va dal 1971 al 1979, quegli anni settanta sovente evocati come il periodo di massima conflittualità sociale. Il libro è corredato da un'introduzione di Silvio Bertotto che inquadra, in maniera sobria e equilibrata, il clima di allora, e da brevissimi testi per ogni capitolo. L'impostazione dei testi può risultare semplificata e un po' schematica, ma la forza del libro sta nelle fotografie ed è sul messaggio che esse trasmettono che vale la pena di riflettere. Altri libri, usciti in anni recenti e meno, hanno provato a ricostruire quella stagione, anche attraverso le immagini dei suoi protagonisti. Ne cito fra i tanti un paio, che ho fra le mani: 1969/1977. Lotte operaie a Torino (Edizioni il Punto Rosso, 2009), sull'esperienza dei Cub, i Comitati Unitari di Base nelle fabbriche torinesi; Filippo Falcone. Morte di un militante siciliano (Lighea, 1999), sull'occupazione di case alla Falchera e sulla morte di Tonino Micicchè; ma l'ampiezza e l'articolazione della documentazione fanno del libro di Lanzardo un testo unico. Si tratta di foto tutte rigorosamente in bianco e nero (allora nessuno avrebbe messo un rullino a colori nella macchina quando si andava a una manifestazione; i colori si tenevano per le vacanze e per le avventure in giro per il mondo); ed è proprio il bianco e nero che trasmette la forza e il contrasto di quegli eventi. Le immagini si riferiscono, per la massima parte, all'ambiente torinese (a parte un intermezzo sulla rivoluzione dei garofani portoghese), e si articolano in diverse sezioni: "Gli anni degli operai"; "Diritto alla casa"; "Violenza, fascismo ed antifascismo"; "Solidarietà internazionale"; "Riforme, diritti civili ed ambiente". Quest'ultima sezione fornisce tra l'altro un significativo inquadramento del contesto torinese di quegli anni, ricordandoci cos'era la città in cui i bambini che vendevano spugnette e accendini agli angoli delle strade erano italianissimi, e le code all'anagrafe di via Barbaroux erano degne del socialismo reale (e somigliavano tanto alle più recenti code alla Questura per avere il permesso di soggiorno… allora si chiamava certificato di residenza). Manca una sezione sulle mobilitazioni studentesche del 1968-69, che diedero un impulso significativo alle lotte sociali degli anni successivi: ma forse si fotografava meno, in quella fase di esordio. La maggioranza delle fotografie si riferisce a manifestazioni e cortei, ma anche a case occupate, a bambini davanti alle scuole e a operai che bloccano i cancelli della loro fabbrica. Il corteo era, e resta, il momento di espressione collettiva di rabbia, speranze, volontà di comunicare e di coinvolgere; ora come allora, era uno strumento di azione collettiva. Ma le analogie col presente forse finiscono qui… E viene da chiedersi se si tratti di un'operazione di pura nostalgia, per i giovani di allora che, ormai vecchi, si rispecchiano in quelle immagini e negli striscioni con parole d'ordine che possono apparire non solo datate (il che è naturale) ma anche dissonanti e forse imbarazzanti. Oppure c'è un legame fra quegli anni, apparentemente lontanissimi, e i nostri, e le immagini ci costringono a riconsiderare i nostri atteggiamenti sempre più assuefatti e rinunciatari e a chiederci cosa è successo nel frattempo? È un libro che parla solo ai reduci, o ha qualcosa da dire a chi ancora pensa che cambiare lo stato delle cose non sia solo un diritto, ma un dovere? Ci dice che c'è stato un tempo, molto meno violento e confuso di quanto si voglia far credere oggi, in cui decine di migliaia di persone, giovani ma non solo, imparavano ad avere un ruolo nelle scelte collettive – perché anche quelle dei padroni sono scelte che toccano la collettività, attraverso la modificazione della vita dei singoli, dei loro tempi, delle loro possibilità di scegliere il proprio futuro. Padroni: una parola che allora compariva su cento striscioni, e che oggi quasi nessuno si azzarda a pronunciare, quasi non esistessero più, sostituiti dai manager; indicatore smarrito di un conflitto che fa parte della struttura della nostra società, e che può trovare nuovi livelli di composizione nel confronto democratico, con una funzione di stimolo e di crescita per la società stessa nel suo complesso. Quale fosse il senso collettivo di quelle mobilitazioni ce lo ricordano le grandi spinte unitarie dei comitati antifascisti, in cui militanti della sinistra extraparlamentare, comunisti, socialisti e cattolici si ritrovavano per la difesa delle istituzioni nate dalla Resistenza, nelle iniziative di solidarietà internazionale e nelle battaglie per la difesa di leggi dello stato, come quelle sul divorzio e poi sull'aborto. Un'unità dal basso che ha segnato fecondamene quegli anni, un patrimonio che non siamo stati capaci a difendere e trasmettere. Guardando quelle facce, tutte di persone normali (quante cravatte…), di persone che credevano di avere un ruolo in quanto lavoravano e studiavano in questa città, di bambini che chiedevano una scuola e un ambiente migliore, di donne che rivendicavano una casa e una scuola decenti ma che poi scoprirono la necessità di lottare per diritti più fondanti, come l'autodeterminazione, non possiamo non chiederci che cosa è rimasto oggi, delle speranze che quelle mobilitazioni impersonavano. Servizi sociali che ogni giorno vengono svuotati e immiseriti nel nome di una crisi che porta il nome di speculazioni e di scelte insensate; un'università che una legge imposta con violenza porta all'asfissia, considerandola inutile; un padronato che si sente abbastanza forte da imporre la cancellazione di quei diritti che a torto abbiamo considerato acquisiti, come quello di lavorare in fabbrica senza la matematica certezza di ammalarsi e di rovinarsi la vita. Mi è venuta nella penna una parola, per sintetizzare la protervia di un sistema che non è più in grado di giustificarsi come portatore di progresso e di benessere, che non offre più beni e servizi che ne possano garantire la legittimità, e che per sopravvivere cerca di spremere fino all'osso gli esseri umani sottoposti al suo dominio: e la parola è ferocia. Mi sono detto: non usarla, se no dicono che sei un ottuso reazionario, socialmente pericoloso. Ma poi mi è caduto l'occhio su un articolo di Massimo Giannini (non propriamente un ultrà dei Centri Sociali più sanguinari), pubblicato su Repubblica del 30 dicembre 2010, in cui, parlando delle recenti scelte dell'amministratore delegato di quella che un tempo fu una grande fabbrica italiana di automobili, usa il termine di "volontà pervicace e quasi feroce"… allora forse quella parola può essere legittimamente usata, magari trascurando il quasi. Davide Lovisolo

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