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recensione di Borghese, L., L'Indice 1996, n. 4
Come un revenant, il romanzo di Heinrich Böll "L'angelo tacque" anticipa la memoria di un passato che sembra non potere e non dovere tramontare. Ripropone infatti il tema della guerra e del dopoguerra attraverso la voce di uno scrittore che è scomparso nel 1985, ma che continua a riservare sorprese grazie alla solerte attività dei suoi esecutori testamentari. "L'angelo tacque" fu scritto infatti nel 1950-51, ma non fu mai pubblicato mentre lo scrittore era in vita. Uscito in Germania nel 1992, a tre soli anni di distanza dall'unificazione tedesca, questo primo testo tratto dal grande ventre del lascito bölliano consente ora di gettare uno sguardo nella cucina di Böll e di vedere cosa bolliva in pentola prima che tutti gli ingredienti si amalgamassero.
A questo romanzo Böll aveva cominciato a lavorare quando il primo romanzo-racconto, "Il treno era in orario", lo aveva segnalato fra gli scrittori esordienti. Ma dopo la pubblicazione della raccolta di racconti "Viandante, se giungi a Spa..." nel 1950, "L'angelo tacque", che si trovava già in mano all'editore ed era stato ripetutamente rimaneggiato, fu ritirato. Si trattava di un romanzo sull'immediato dopoguerra, che iniziava dopo la firma dell'armistizio, con un disertore come protagonista. In sua vece uscì "Dov'eri, Adamo?", un romanzo tutto incentrato sulla guerra, su una guerra che continuava oltre la sua stessa fine e che poteva colpire a caso chi tentasse di varcare la soglia di casa. L'opera edita, che aveva la forma della cronaca e si limitava a porre la domanda, si era sostituita a quella, rientrata nel cassetto, che, incentrata sulla ricerca di un dialogo, sembrava suggerire una risposta.
Certo i lettori di Böll potranno riconoscervi temi e motivi che ritornano nell'opera successiva, da "E non disse nemmeno una parola" a "Le opinioni di un clown*, perché il repertorio bölliano vi è ampiamente prefigurato. Personaggi e situazioni anticipano la tipologia nota, qualche brano che è finito poi, estrapolato, in un racconto o in un radiodramma, qui lo si ritrova inserito nell'insieme preesistente. L'autore di questo romanzo è infatti un Böll prima maniera che tratta i temi che gli stanno a cuore in un modo che nell'opera successiva non sarà dato ritrovare. La vita è qui messa a confronto con l'arte figurativa. L'amore e la religione nascono in un contesto di rovine e di arte sacra e si manifestano attraverso una simbologia elementare - il pane, il vino, sigarette a non finire - che nell'opera successiva è destinata a subire diverse modifiche. Spezzoni di presente appaiono rappresentati come al rallentatore attraverso la restituzione di dialoghi e la descrizione dei gesti che li accompagnano. Colori, odori, rumori tendono ad accentuare le connotazioni sensoriali della vicenda di un reduce che cerca di ridare un senso al vivere.
In diciannove brevi capitoli sono tratteggiati, come nelle tessere di un mosaico, personaggi e situazioni di un paese devastato: accanto al protagonista, che vaga in cerca di un nome e della propria identità, alcune figure femminili e maschili, abbozzate in modo più o meno sommario, si muovono in ospedali, ricoveri, in ciò che resta di case bombardate. Del trauma della guerra sappiamo che Böll ha fatto il nodo della propria scrittura. La sua adesione alla letteratura delle macerie, che nel 1952 avrebbe polemicamente formulato anche nella saggistica, qui si manifesta nell'avversione per ogni forma di culto. È l'iconografia cristiana, vulgatissima, a essere rivisitata e, per così dire, rifunzionalizzata.
Al centro del romanzo campeggia la descrizione di una chiesa squarciata dalla guerra, di un manierismo goticheggiante che può apparire inconsueto a chi abbia in mente la sobria asciuttezza di "E non disse nemmeno una parola" o la graffiante essenzialità dei "Racconti umoristici e satirici". È un Böll, questo, che guarda con insistita intenzionalità alle macerie del dopoguerra come al risultato di un'apocalisse. Un Böll apocalittico a suo modo, per la prima e ultima volta, che cerca di restituire la lacerazione col pennello di chi dipinge fondali di cartapesta, mentre prefigura nel dialogo la possibilità di un incontro.
"L'angelo tacque", che nelle previsioni dello scrittore di Colonia do-veva diventare il "romanzo della generazione perduta", appare influenzato più da Léon Bloy che da Hemingway, da cui pure stava assimilando l'arte dell'understatement. La visionarietà grandiosa del francese deve averlo impressionato molto prima e a un punto tale da fargli concepire questo romanzo quasi come una trascrizione drammatizzata de "Il sangue del povero". Non a caso il tema dichiarato è la fame e l'elemento di mediazione sono dei buoni per l'acquisto del pane e il denaro dato in cambio del sangue.
Ma l'autore di "L'angelo tacque" si muove su un doppio binario. Se nel registro apocalittico si ha l'impressione di una visionarietà posticcia, di uno stanco orrore sottolineato da aggettivi e da similitudini, nel registro del quotidiano s'incontrano già quel linguaggio terragno, a tratti predicatorio, che ne è il precipitato, e il tono umoristico che costituirà la forza dello scrittore successivo.
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