Chiudi

Aggiungi l'articolo in

Chiudi
Aggiunto

L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri

Chiudi

Crea nuova lista

L' amore del pensiero - Gianni Carchia - copertina
L' amore del pensiero - Gianni Carchia - copertina
Dati e Statistiche
Wishlist Salvato in 13 liste dei desideri
L' amore del pensiero
Disponibilità immediata
15,70 €
-5% 16,53 €
15,70 € 16,53 € -5%
Disp. immediata
Chiudi
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
ibs
15,70 € Spedizione gratuita
disponibilità immediata disponibilità immediata
Info
Nuovo
Libreria Bortoloso
16,53 € + 6,30 € Spedizione
disponibile in 5 giorni lavorativi disponibile in 5 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
ibs
15,70 € Spedizione gratuita
disponibilità immediata disponibilità immediata
Info
Nuovo
Libreria Bortoloso
16,53 € + 6,30 € Spedizione
disponibile in 5 giorni lavorativi disponibile in 5 giorni lavorativi
Info
Nuovo
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
Chiudi

Tutti i formati ed edizioni

Chiudi
L' amore del pensiero - Gianni Carchia - copertina

Descrizione


“Nella sua variante più estrema, tuttavia, l’idea di una risoluzione integrale del valore di verità della filosofia nella sua pura apparenza formale si trova espressa in una pagina bergsoniana, poco nota e poco frequentata, di La pensée et le mouvant che evidenzia – contro le pretese idealistiche di ogni logica del giudizio – le condizioni pure della significazione, la letteralità presemantica e precategoriale, che costituisce inestricabilmente così l’origine come il telos del senso. Richiamandosi a un suo precedente corso su Descartes tenuto al Collége de France, Bergson scrive: “[Durante una lezione], abbiamo preso ad esempio una pagina o due del Discours de la Méthode e abbiamo cercato di mostrare come gli andirivieni del pensiero, ciascuno di direzione determinata, passino dallo spirito di Descartes al nostro grazie all’unico effetto del ritmo, quale è indicato dalla punteggiatura e quale soprattutto lo rileva una corretta lettura ad alta voce”. Siamo qui in prossimità, forse, del significato ultimo che dobbiamo attribuire al chiasma da cui siamo partiti, a quell’intreccio di filosofia e poesia che, scavalcando lo spazio rassicurante della mediazione estetica, dell’“arte estetica”, ci rivela la profondità di una dimensione ontologica del tutto nuova. È una dimensione nella quale non c’è più un alto e un basso, un dentro e un fuori, un’essenza e un’appartenenza, uno sfondo e una figura. Nella profondità del chiasma l’essenza si rivela nell’apparenza, ma questa, a sua volta, trae la propria luce e il proprio senso dall’essenza. È la figura, è la bellezza a rinviarci a quello sfondo, senza il quale essa non potrebbe rivelarsi. La figura dischiude lo sfondo che la illumina. Enigmatico e inestricabile gioco di pieghe e di avvolgimenti, nel quale il chiasma stesso si risolve. In maniera concisa e sublime, già lo aveva detto Tommaso nel suo Commento alla Metafisica di Aristotele: “La ragione per la quale il filosofo viene paragonato al poeta è che entrambi hanno a che fare con lo stupore”». – G. C.

Leggi di più Leggi di meno

Dettagli

2000
1 aprile 2000
160 p.
9788886570619

Voce della critica


recensioni di Givone, S. L'Indice del 2000, n. 12

Benché la scomparsa prematura di Gianni Carchia abbia messo fine alle sue ricerche nel pieno del loro sviluppo, grazie a questo libro bellissimo e profondamente meditato, cui l'autore ha lavorato fino all'ultimo, è possibile cogliere di esse tutta la ricchezza e l'intero profilo. Carchia veniva dall'antropologia e dalla teoria critica francofortese, che fu tra i primi in Italia a studiare sia nel versante adorniano sia in quello benjaminiano, per approdare poi a una forma originale di platonismo o di essenzialismo post-ermeneutico. Apparentemente un'inversione di rotta: da una filosofia della storia a una filosofia dello spirito, dall'ermeneutica alla metafisica, dal linguaggio all'essere. Fino a una teoria dello spirito o, per usare una sua espressione, del Verbo come "legame intimo con l'essere, come ritmo latente delle cose del mondo". In realtà il pensiero di Carchia evolve in modo lineare. L'esito è conforme alle premesse.
Si consideri la disamina carchiana dello stato attuale della filosofia. La tanto dibattuta contrapposizione fra analitici ed ermeneutici appare a lui sostanzialmente pretestuosa: gli uni e gli altri di fatto concordano sul punto decisivo, ossia sulla liquidazione della trascendenza del senso rispetto alle sue epifanie. Da dove la "svolta linguistica", chiede Carchia, se non dalla identificazione di orizzonte della comprensione e linguaggio? Ma identificare orizzonte della comprensione e linguaggio significa che della verità (la verità come paradigma e condizione dell'accesso degli eventi a un senso possibile) non ne è più nulla. Affermare, come afferma la neo-retorica contemporanea, che il logos in fondo è mito e soltanto mito, ossia effetto di linguaggio, non è che l'altra faccia del riduzionismo votato a sostenere, come sostiene la filosofia analitica, che il mito è semplicemente logos inconsapevole o mascherato.
La neo-retorica (ossia quel movimento di pensiero che va dall'ermeneutica al decostruzionismo, e di cui il pensiero debole è un episodio) ha, dice Carchia, la sua ragion d'essere nella negazione che esista un "altro" dal linguaggio e dunque qualcosa di spirituale che non sia mero "gioco linguistico". Col che viene oscurata l'evidenza cui la filosofia da Platone in poi si è sempre appellata. Tale è quell'intuire che non appartiene all'ordine del dicibile ma lo instaura, e lo instaura non a partire da sé, ossia dal linguaggio, ma da ciò che è oltre il linguaggio stesso - ed è la dimensione in cui lo spirito riposa silenziosamente in sé, dunque, non fatto culturale, bensì realtà archetipica, essenziale, originale. Ma volgere le spalle a Platone porta inevitabilmente a concepire la verità come invenzione fantastica e a risolverla nel suo farsi evento, nel suo non essere che apparenza. Non essendoci più eventi da intuire, conclude Carchia, restano solo cose da raccontare.
Con perfetta simmetria rovesciata la filosofia analitica compie il movimento opposto ma rinvia all'identica tesi della invalicabilità del linguaggio. Se l'ermeneutica, dopo aver dissolto verità e senso nel racconto e anzi, seguendo Nietzsche, nella favola, giunge al decostruzionismo e ai suoi sofismi, la filosofia analitica, ritenendo che il linguaggio purificato e formalizzato dica il mondo com'è veramente, non fa che negare la trascendibilità dell'orizzonte linguistico e ripristinare l'illusione che tra parola e cosa non ci sia alcun terzo. Scrive Carchia: "il riduzionismo della filosofia analitica che vuol mettere ordine nel linguaggio e, all'opposto, l'affermazione sofistica secondo cui il linguaggio è sempre orthos, in ordine, non sono in realtà antitetici. In entrambi i casi, si sottintende che non si dà verità - fosse pure come affermazione della sua indistinguibilità dalla menzogna - fuori appunto dalla lingua".
Prendendo le distanze sia dall'ermeneutica (e dal pensiero debole) sia dalla filosofia analitica (e dal neo-scientismo), Carchia non si lascia intimorire dall'interdetto che grava su gran parte della filosofia contemporanea, e, ritornando a Platone, indica la via del risalimento alle origini fino a scoprire che "il linguaggio è umano, troppo umano" e che viceversa la realtà eccede la sua significazione, trascende la comunità linguistica. Non è il linguaggio a catturare e ad appropriarsi della realtà, perché è vero invece che la realtà sempre di nuovo "ammutolisce" e "infrange" il linguaggio. In essa va riconosciuto, per quanto non possa essere nominato (infatti è irriducibile all'ordine del linguaggio), il principio di un'alterità che fa resistenza sia alla pretesa di demitizzare il mondo sia al tentativo di remitizzarlo. Del resto, osserva Carchia, il sospetto e la diffidenza nei confronti del linguaggio, che ha ispirato tanta riflessione filosofica contemporanea, non derivavano dalla consapevolezza che verità e realtà non sono mere proiezioni dell'umano ma vanno cercate altrove? Ossia in una dimensione che resta irrimediabilmente preclusa sia all'ermeneutica sia alla filosofia analitica?
Occorre secondo Carchia, qualora non si voglia rinunciare alla tesi del carattere fondamentalmente interpretativo del rapporto fra il linguaggio e la verità, far ricorso a una diversa ermeneutica: un'ermeneutica che postuli "un darsi originario del senso" e dunque il suo costituirsi (anzi, il suo essere già da sempre costituito) indipendentemente da chi lo interpreta e lo trasforma in fatto comunicativo. Di ciò Carchia vede un precedente in Bergson e nella sua concezione della circolarità dello spirito per cui lo spirito si fa mondo ma per farsi libero da qualsiasi mondo, pura energia creatrice, fonte di tutto ciò che è ma sussistente di per sé - e questa riscoperta di Bergson dopo Heidegger e al di là di Heidegger è degna della più grande attenzione. Ma non meno interessante la sollecitazione che Carchia ne ricava: a prendere sul serio "qualcosa che rappresenta forse lo scandalo massimo per il mondo della cultura e della storia, messi d'un colpo da parte".
Pensatore in polemica con la svolta linguistica e i suoi sbocchi solo apparentemente antitetici, Carchia individua i guasti che derivano da una concezione totalitaria e conservatrice del linguaggio - linguaggio che diventa tutt'uno con l'essere e ne offre un'immagine molto peggio che indebolita, perché ridotta a traccia del non essere, a memoria culturale, a monumento. "È la gabbia del linguaggio", egli scrive "a invertire lo stato di cose reale, inducendoci a credere, ad esempio, che il valore dell'opera d'arte non sia nella sua concezione - la visione delle idee, l'afferramento dei 'ricordi puri' - ma nella sua ricezione, nella sua accettazione da parte della critica, dei musei ecc.; oppure ancora, che il valore dell'azione morale non le sia intrinseco, ma dipenda dal suo adeguarsi o meno alle norme etiche ecc.". Lo stesso accade, e in modo emblematico, con la psicoanalisi. "I valori spirituali sono considerati qui solo una risposta, attraverso la sublimazione, alla pulsione di morte, dunque come volontà di immobilizzare il tempo, di stornare la caducità, in obbedienza a una concezione monumentale e funeraria della cultura". Insomma, i valori dello spirito sono convertiti in beni culturali che non hanno altro scopo (altro senso, altra verità) che la conservazione fine a se stessa.
Carchia scriveva queste cose già 1991. Da allora, come quest'opera dimostra, avrebbe proseguito nella direzione di una filosofia che, platonicamente, fosse amore del pensiero a misura che è pensiero che ama, pensiero capace di accordarsi all'essere, pensiero come musica che "dice il mondo com'è prima della creazione". Ma ciò non comporta necessariamente ascesi o mistica, benché Carchia abbia seguito anche tali cammini; non significa assolutamente distogliere lo sguardo dal mondo, perché significa giudicarlo a partire dal suo fondamento, dalla sua origine. Dunque, è Platone che permette a Carchia di essere fedele a quella teoria critica della società da cui era partito e che la filosofia degli ultimi trent'anni, si tratti di neo-retorica o di neo-positivismo, di neo-sofistica o di neo-scientismo, non ha fatto che tradire. In lui, nonostante il salto apparente, inizio e fine della ricerca chiudono il cerchio di un'impresa filosofica di rara coerenza, fra le più significative di questo scorcio di secolo.



recensioni di Vattimo, G. L'Indice del 2000, n. 12

Il titolo dell'ultimo libro di Gianni Carchia - purtroppo non solo il più recente, ma proprio l'ultimo che ha scritto e preparato per la stampa - potrebbe anche suonare in modo leggermente diverso: non L'amore del pensiero, ma "L'amore nel pensiero". Almeno così mi sembra si debba trasformarlo per farsi un'idea unitaria del libro, che comprende saggi scritti nell'arco di un quindicennio e che, anche quando sono dedicati a discussioni di intento apparentemente storico-critico più che strettamente teorico, sono tutti riportabili a un unico filo conduttore, la ricerca di un amore che pos-sa ispirare e in qualche senso fondare - anche se non come pensava il termine la metafisica razionalistica - l'attività del pensiero. Negli ultimi anni, Carchia si era anche dedicato a un'intensa lettura di Platone - pubblicando un Commento al "Sofista" (Quodlibet, 1997) -, e in molte di queste pagine proprio Platone, oltre che richiamato esplicitamente, è presente come riferimento e ispiratore ideale. Ciò che, soprattutto in alcuni bellissimi capitoli della seconda parte del libro, Carchia chiama "spirito", cercando di coglierlo al di là delle letture vitalistiche e storicistiche che hanno dominato molte filosofie del nostro secolo, è per l'appunto quell'oggetto di amore che muove il pensiero e, solo, gli conferisce un senso. Questo intento di liberare lo spirito dagli equivoci che vi hanno incrostato teorie come quelle di Nicolai Hartmann e di Wilhelm Dilthey comporta anche una presa di distanza polemica dall'ermeneutica, almeno come Carchia la legge, a mio parere troppo condizionato dalla sua versione decostruzionista.
In modi e termini diversi, Hartmann e Dilthey non hanno saputo mantenere un netto discrimine tra lo spirito e la vita: Dilthey con la sua teoria dell'Erlebnis come chiave metodica delle scienze dello spirito, che secondo Carchia condiziona in modo determinante l'ermeneutica di ispirazione heideggeriana; e Hartmann con la tesi secondo cui lo spirito è una sorta di efflorescenza o sublimazione della vita, dalla quale si eleva come una sua formazione superiore, anche però inevitabilmente più debole, che per vivere ha sempre bisogno di rimettersi in contatto con la vita vivente di ciò che spirituale non è. Hartmann sostiene esplicitamente che le forme in cui lo spirito si obiettiva - in opere d'arte e di pensiero, in istituzioni, ecc. - non possono vivere se non in quanto uno spirito vivente le risvegli alla vita. Senza questo, lo spirito obiettivo (i "prodotti" concreti dello spirito), come già Hegel lo chiamava, rimane lettera morta. Ma ciò significa, secondo Carchia, che lo spirito non è nulla di autonomo, è solo vita che deve ritornare alla vita, e dunque anche all'immanenza e al destino della mortalità. In Hartmann, dunque, siamo di fronte a un vero e proprio "naturalismo dello spirito". Se il senso dei prodotti spirituali si dà solo nel loro essere rivissuti e interpretati, sembra a Carchia che non ci sia più alcuna autonomia dello spirituale rispetto alla vita concepita nella sua pura naturalità. È questo anche il senso dell'affermazione di Croce secondo cui ogni storia è storia contemporanea, perché è reale solo nella vita attuale che la rivive e reinterpreta. Così facendo, però, si arriva all'estremo del nichilismo ermeneutico ("i miei versi hanno il senso che gli si attribuisce", secondo il famoso detto di Valéry).
Di contro a questa totale dissoluzione della lettera dei testi e delle formazioni storico-culturali nell'atto interpretativo, che riduce tutto a storia vivente, e cioè a puro divenire naturale, alla vita nel sen-
so puramente "zoologico" del termine, Carchia richiama la nozione di spirito come la elabora Max Scheler: il quale vede l'essenza dello spirituale nell'essere qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a tutto ciò che è vita (vegetale, animale, psichica), "un principio opposto a ogni forma di vita in generale e anche alla vita dell'uomo". È una concezione ascetica dello spirito, che echeggia anche Schopenhauer; e in base alla quale Carchia propone di distinguere radicalmente lo spirito da tutto ciò che è cultura e storia, e che si pensa come una sorta di surplus della vita; lo spirito nella sua purezza è invece "sospensione degli impulsi vitali (...) anelito definalizzato, slancio rivolto su se stesso, impulso ridotto a forma". Lo spirituale è una sorta di valore finale, che non intende servire agli scopi della vita, della promozione della cultura, e non aspetta, anzi forse esclude, l'interpretazione vivente: "l''in sé' dello spirito è il frutto dell'ascesi, di quel processo di negazione grazie al quale ci si libera del 'per noi' di ogni recezione attualizzante".
Il sospetto che, come altri ermeneutici e decostruttori pentiti, anche Carchia abbia ceduto alla fine (ma in realtà già in tante opere precedenti, dunque non è affatto un pentito...) a quello che il suo Adorno nella Dialettica negativa stigmatizza come il "bisogno ontologico" di Heidegger, mi sembra solo in parte fondato. È innegabile che, collocando tutta l'ermeneutica dal lato di una riduzione vitalistico-naturalistica della storia, Carchia compie una semplificazione eccessiva, sia per ciò che riguarda Heidegger sia rispetto a Gadamer. La nozione-chiave di Wirkungsgeschichte (storia degli effetti) gadameriana doveva infatti metterlo in guardia dal riportare l'interpretazione dello spirito obiettivo all'arbitrio del momento vissuto; l'in sé dei prodotti spirituali c'è proprio in quanto c'è una loro vita storica che non si riduce a servire da pura e semplice occasione alle nuove, arbitrarie interpretazioni, e che ha qualcosa dell'immortalità che sta a cuore a Platone. Può essere questa una risposta sufficiente all'esigenza di non lasciare che lo spirito sia travolto dalla pura e semplice vicenda della vita
e della morte, e che dunque,
tra l'altro, anche la morale finisca per assoggettarsi del tutto alla legge della sopravvivenza? Forse la risposta della storicità autenticamente spirituale - Wirkungsgeschichte di Gadamer, storia dell'essere in Heidegger - non è sufficiente a una mentalità platonica, ossessionata dal rapporto con un mondo di forme eterne che le appare come l'unica garanzia (ma che minaccia anche sempre di togliere ogni senso al divenire, alla speranza, alla libertà; forse all'amore stesso). Ma se la storia fosse pensata, cristianamente, come storia della salvezza, anche nel senso di una kenosi che non è certo estranea alle preoccupazioni ascetiche di Carchia, forse il discorso potrebbe cambiare.



recensioni di Vercellone, F. L'Indice del 2000, n. 12

Gianni Carchia è forse uno dei pensatori contemporanei che più ha inseguito i lineamenti di un pensiero attraverso percorsi variegati e apparentemente difformi, estraniandosi così decisamente dal tratto monografico, storicistico che appartiene alla tradizione della filosofia italiana. Carchia ha compiuto un iter nella filosofia che apparentemente non potrebbe esser più avventuroso, dal marxismo, dalla sua frequentazione dei "Quaderni rossi", da Benjamin e Adorno all'antropologia, per venire a Kant e al romanticismo, all'estetica delle arti figurative e poi ai suoi studi più recenti nei quali l'attenzione per il pensiero antico è divenuta prevalente. Pure sarebbe sbagliato pensare che la preoccupazione teorica maggiore di Carchia non si manifesti sin dall'inizio per maturare poi in seguito con peculiare coerenza. È quanto testimonia questa breve citazione tratta dal suo primo libro, Orfismo e tragedia (Celuc, 1979): "Solo il canto di Orfeo poeta è capace di redimere la natura: l'impulso salvifico della conoscenza vera non può, infatti, non essere estraneo all'hybris titanica che sotterraneamente pervade, non meno del mito, il logos, dispiegato".
Il tratto gentile della personalità di Carchia, che resta impresso nella memoria di chiunque lo abbia frequentato, è infine intrinseco al suo stesso modo di far filosofia, che è vivificato sin dall'inizio dalla preoccupazione di una natura oppressa che cerca la propria salvezza nell'arte. È su questo piano che si palesa la dimensione propriamente salvifica del suo pensiero, che coincide con la sua vocazione estetica. Una vocazione estetica che rivendica la sua universalità su di un piano che trascende l'arte stessa. Questo tratto attraversa la meditazione di Carchia dai suoi inizi sino agli esiti ultimi che preludono alla sua immatura scomparsa. La salvezza attraverso l'apparenza è divenuta in Carchia una figura del "sublime rovesciato" - a riprendere parzialmente il titolo di un suo saggio contenuto in Retorica del sublime (Laterza, 1990) - della liberazione dall'immanenza. È un cammino verso quell'altro dal mondo che è la forma, estrema salvaguardia dalla positività dell'essere che si staglia nella sua quasi demonica intrascendibilità.
Un pensiero, dunque, che non ha mai dimesso la propria criticità ma che, anzi, la ha accentuata a confronto con gli esiti estremi del moderno e del tardo-moderno, come testimonia fra l'altro anche la sua splendida trattazione dell'Estetica antica (Laterza, 1999). L'opposizione antico-moderno si estende così dalla sua cifra storica a quella metafisica, a intendere l'opposizione perenne tra la bellezza e la storia, un bellezza che romanticamente decade nell'arte secondo una tesi che viene sviluppata in particolare in Arte e bellezza (il Mulino, 1995). È solo al di là della portata univocamente artistica della bellezza, introdotta dalle estetiche idealistiche, che è dato recuperarne la cifra peculiare, quella liberazione nell'apparenza che costituisce la più remota promessa della kantiana Critica del Giudizio.
La produzione scientifica di Carchia è ricchissima. Oltre ai libri già citati sopra bisogna ricordare almeno Estetica ed erotica. Saggio sull'immaginazione (Celuc, 1981); la raccolta di saggi La legittimazione dell'arte (Guida, 1982); lo studio sul romanzo antico Dall'apparenza al mistero (Celuc, 1983); Il mito in pittura (Celuc, 1987), nel quale si affaccia, tra l'altro, l'idea di un'ermeneutica della pittura poi sviluppata in studi successivi; La favola dell'essere. Commento al "Sofista" (Quodlibet, 1997); Dizionario di estetica (in collaborazione con Paolo D'Angelo, Laterza, 1999); e infine L'amore del pensiero sul quale si soffermano anche queste pagine.

Leggi di più Leggi di meno

Conosci l'autore

Gianni Carchia

(Torino 1947- Vetralla 2000) è stato professore ordinario di Estetica all’Università di Roma Tre. Tra le Sue opere ricordiamo: Orfismo e tragedia, Milano 1979; Estetica e erotica, Milano 1981; La legittimazione dell’arte, Napoli 1982; Dall’apparenza al mistero, Milano 1983; Pharmakos: il mito trasfigurato, Torino 1984; Il mito in pittura, Milano 1987; Retorica del sublime, Roma-Bari 1990; Arte e bellezza. Saggio sull’estetica della pittura, Bologna 1995; La favola dell’essere. Commento al “Sofista”, Macerata 1997; L’estetica antica, Bari 1999; Dizionario di Estetica, Bari 1999 (co-curato con P. D’Angelo).

Chiudi
Aggiunto

L'articolo è stato aggiunto al carrello

Chiudi

Aggiungi l'articolo in

Chiudi
Aggiunto

L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri

Chiudi

Crea nuova lista

Chiudi

Chiudi

Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.

Chiudi

Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore