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Oltre il razzismo. Verso la società multirazziale e multiculturale - Franco Ferrarotti - copertina
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Oltre il razzismo. Verso la società multirazziale e multiculturale
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Oltre il razzismo. Verso la società multirazziale e multiculturale - Franco Ferrarotti - copertina
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Dettagli

2
2000
1 gennaio 2000
Libro universitario
208 p.
9788871440699

Voce della critica

FERRAROTTI, FRANCO, Oltre il razzismo. Verso la società multirazziale e multiculturale, Armando, 1988
(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)

BOCCA, GIORGIO, Gli Italiani sono razzisti ?, Garzanti, 1988

BALBI, ROSELLINA, All'erta siam razzisti, Mondadori, 1988
recensione di Frigessi, D., L'Indice 1989, n. 4

Una domanda, un'affermazione: gli italiani sono razzisti? Suoniamo l'allarme, il razzismo è tra noi. A distanza di poco più di un mese due musi del nostro giornalismo d'opinione, Rosellina Baldi e Giorgio Bocca, hanno impugnato la penna per raccontare e scrutare questo fenomeno emergente dell'Italia d'oggi. Non c'è quasi giorno in cui i mass media non aggiungano un indizio, non segnalino un fatto che accresce la nostra inquietudine di fronte a questo fantasma, che non si sa se appartenga di più al passato o al futuro.
Diciamolo pure, questa brusca "scoperta" del razzismo nostrano ha l'aria di essersi trasformata in arrembaggio, l'attenzione dei media sembra porci di fronte a un comportamento collettivo ormai irreversibile, rischia di dipingere una notte in cui tutte le vacche sono nere. Rosellina Balbi e Giorgio Bocca hanno cercato di andare più a fondo. Ma prima di dare la parola ai loro libri vorrei tentare di delimitare il campo, disseminato di trabocchetti.
Per luogo comune ormai consolidato e diffuso l'Italia sembra esser stata risparmiata dal razzismo. È cosa nota, che anche Rosellina Balbi osserva. Merito della chiesa, del Risorgimento laico, di un colonialismo in ritardo? Sta di fatto che il nostro paese non ha avuto un pensatore razzista eminente, come Vacher De Lapouge, Gumplowicz o Chamberlain (i libelli antisemiti fanno parte della paccottiglia d'epoca). Anzi, le "Interdizioni Israelitiche" di Carlo Cattaneo (pubblicate nel 1837) sono il "manifesto" italiano del pensiero laico e razionalistico sulla questione ebraica, una delle più consapevoli espressioni di concreta analisi del pregiudizio a livello europeo.
Pauperismo, squilibrio nord-sud, drammi della miseria e della fame: con questi aspetti della vita nazionale devono confrontarsi, prima e dopo l'unificazione, alienisti, medici, antropologi e sociologi. La questione meridionale dopo il '60 solleva i problemi laceranti della diversità di sviluppo, delle tradizioni e delle mentalità e si intreccia con la questione criminale e con la problematica della pericolosità sociale (celebre la polemica tra Ferri, Turati e Colajanni negli anni 1883-84). Lo scarso sviluppo di alcune facoltà (capacità di apprendimento, educabilità, sensibilità morale), che avvicina il criminale all'uomo primitivo e caratterizza le razze inferiori, viene attribuito in quegli anni alle popolazioni meridionali. Una parte dei collaboratori di Lombroso motiverà la criminalizzazione delle "classes dangereuses" attraverso lo stigma dell'inferiorità etnica, lo stesso Lombroso tornerà spesso sull'immagine di un'Italia disomogenea, "disunita" per ragioni etniche, formata da "diverse razze inassimilabili"
Sono, questi, aspetti e filoni ancora da indagare. Un esempio persuasivo viene da Angelo Del Boca ("Gli italiani in Africa orientale", vol. III, Laterza, Bari 1982; "Gli italiani in Libia", Laterza, Bari 1986), che ha riportato alla luce il fondo razzista dei rapporti tra civili italiani e nativi durante la conquista dell"'Impero". Ma molto, se non quasi tutto, è ancora da scoprire in questo campo. D'altro canto le responsabilità dell'antisemitismo italiano incominciano da poco a essere dissepolte, sfatando il luogo comune degli italiani quasi tutti "innocenti".
Oggi, in età post-fascista e postcoloniale, la categoria dell'immigrazione sostituisce e diventa il nome della razza. Il "nuovo" razzismo europeo, quello attuale, è centrato sul complesso dell'immigrazione e si presenta come un "razzismo senza razze" perché punta sull'irriducibilità delle differenze culturali, sull'incompatibilità di culture tra loro storicamente distanti. Le cosiddette soglie di tolleranza da non oltrepassare, le frontiere da proteggere, le distanze culturali da preservare: sono alcuni punti fermi del nuovo razzismo che è stato anche definito "culturale", che biologizza la cultura e la trasforma in un destino irreversibile (E. Balibar, L. Wallerstein, "Race nation classe. Les identités ambigues", la Découverte, Parigi 1988 e "La force du prejugé" di P. Taguieff, recensito qui da Laura Balbo).
Oggi l'Italia si confronta con questo fatto nuovo: l'immigrazione dal terzo mondo. Dal secondo Ottocento in poi il nostro paese ha avuto una serie di esperienze migratorie a dir poco sconvolgenti: una colossale emigrazione esterna (20 milioni di italiani soprattutto nelle Americhe e nell'Europa settentrionale tra il 1861 e il 1940), un'imponente migrazione interna, durante gli anni '60, dal sud e dalle campagne alle città e alle fabbriche del nord, e oggi l'immigrazione extra-comunitaria. Questi ingenti spostamenti e mescolanze di popolazione caratterizzano l'Italia più degli altri paesi mediterranei che conoscono tuttavia una storia analoga, quali la Spagna e la Grecia. Sul numero dei nostri immigrati (secondo l'Ispes quelli extra-comunitari sarebbero 1.100.000, di cui 650.000 irregolari) - ma tutte le stime devono essere prese con molta cautela - il dibattito si accompagna non di rado al timore di un mitico crollo demografico che potrebbe far presagire per noi "un destino sudafricano" (G. Bocca, p. 99). Ma un'informatissima analisi che riguarda l'andamento demografico dei maggiori paesi sviluppati dell'Europa occidentale, ritiene non plausibili "tassi di crescita positivi o negativi di un'ampiezza più che moderata" (M.S. Teitelbaum, J.M. Winter, "La paura del declino demografico", Il Mulino, Bologna 1987, p. 185).
Sullo sfondo apocalittico di flussi incontrollabili e permanenti dell'immigrazione di colore, che ripropongono la lacerazione e la terribile differenza tra il sud e il nord del mondo, tra i paesi miserabili e quelli ricchi, nel suo libro Giorgio Bocca intreccia cifre significative e un'abbondante aneddotica per descrivere questa "prima vera invasione di massa del nostro paese", un'inversione di tendenza storica "che sta cambiando il volto della vecchia Europa. In questo quadro fosco, nel quale rientrano le manipolazioni della politica (il Msi che invita e onora Le Pen, le leghe regionali del nord che chiedono protezione dai meridionali), Bocca segnala diversi tipi di razzismo e in primo luogo quello che ha una motivazione economica, si identifica con lo sfruttamento e oggi si esprime nella guerra tra poveri, nella difesa del posto di lavoro che si ammanta di ostilità etnica.
Nell'arco della lunga "psicostoria" del rapporto con l'altro, quale posto ha occupato l'Italia? Bocca menziona il nostro colonialismo (impresa di Libia, conquista dell'Etiopia) e le sue malefatte, restringe il razzismo fascista "a una minoranza di maniaci che fanno capo a Preziosi" (p. 60) e definisce il razzismo italiano - quello di ieri e quello di oggi, pare di capire - come "eversivo" o elusivo. Gli italiani insomma hanno sempre rimosso il problema e il razzismo attuale dei giovani (ma dell'inchiesta condotta dalla comunità di Sant'Egidio tra studenti romani, che dimostrerebbe una tale tendenza, non è stato divulgato, per quel che ne so, l'impianto del questionario, il tipo delle domande, ecc.), questo presunto razzismo deriva dall'ignoranza. È un peccato che Bocca non abbia approfondito questo tema importante: l'ignoranza, l'assenza di informazione nella scuola, la mancanza insomma di una cultura sul razzismo europeo che indichi le sue forme storiche e le sue fasi differenziate.
L'antisemitismo viene ricordato in poche pagine, l'autore si mostra soprattutto attento alle vicende più recenti. Qualche sconcerto tuttavia potrebbe assalire il lettore nel leggere che la persecuzione razziale attuata in Italia dal fascismo fu vissuta dai cristiani "come qualcosa che non capivano" (p. 101): anche la recente pubblicazione di testimonianze che risalgono al periodo fascista (valga per tutte il "Diario" di Ernesta Bittanti Battisti a cura di A. Radice, Manfrini, Trento 1984) smentisce questa formula assolutoria troppo sbrigativa. Altrettanto semplicistico, per non dire polemico, potrebbe apparire il modo con cui Bocca descrive il "miserabilismo" dei rifugiati, immigrati per motivi politici, oppure il titolo di un suo paragrafo: "ci guardano e diffidano" (p. 68).
In un dibattito televisivo del 27 gennaio scorso, del resto, Giorgio Bocca ha chiarito senza incertezze il suo pensiero: "bisogna accettare la civiltà in cui si è voluti entrare". Non lo ha afferrato il dubbio che l'immigrazione dal terzo mondo non sia una scelta ma una coercizione dettata dalla necessità di sfuggire alla miseria, alla fame e alla persecuzione. Chi emigra, insomma, deve adattarsi e non preoccuparsi di salvaguardare la propria identità. Bocca non sembra tenere conto del fatto che gli immigrati, in Francia come in Germania o in Gran Bretagna, rivendicano proprio questo diritto.
Più della galleria di atteggiamenti ed episodi a contenuto razzista che riguardano immigrati di colore, ebrei, zingari e terroni, si raccomandano le pagine - e non sono poche - in cui Bocca critica quasi sempre in modo assai pertinente la nostra politica d'immigrazione. La legge 943, magari la migliore d'Europa ma inapplicabile, le circolari riservate alle questure, la discrezionalità dello stato, le restrizioni della "clausola geografica" (la qualifica di rifugiato politico è riconosciuta solo a coloro che provengono dall'est, con qualche eccezione), le ipocrisie burocratiche, l'irresponsabilità dei politici, insomma il razzismo delle leggi e delle strutture - l'esempio del sistema sanitario chiuso agli immigrati è particolarmente pregnante - sono denunciati con chiarezza e vigore. È vero che gli immigrati descritti da Bocca sono figure spesso evanescenti, non si distinguono i diversi ruoli e le situazioni: lo studente non si differenzia dal "vu' cumprà", il lavoratore clandestino da quello regolare. Ma l'autore non poteva appoggiarsi ad una mappa complessiva, in Italia sono state fatte qua e là utili ricerche soprattutto a livello di regione e di città, seguendo parametri e metodi non comparabili tra loro, o spesso di tipo quantitativo. Le eccezioni non sono numerose, vorrei segnalarne almeno una a cura di Umberto Melotti, "Dal terzo mondo in Italia" (Centro Studi Terzo Mondo, Milano 1988).
Una conoscenza analitica più dettagliata dell'immigrato e del "diverso" connota invece il libro di Franco Ferrarotti - com'è naturale, dato che l'autore è sociologo. I risultati di una ricerca dell'84 (pubblicata nell'88: "Roma: immigrazione dal terzo mondo" sotto gli auspici del comune di Roma e dell'Uspe) gli consentono di tracciare una prima tipologia dei "terzomondiali". Tra i dati rilevanti, l'alto numero di uomini (fanno eccezione le numerose etiopi), notevoli dislivelli nell'istruzione a seconda dei paesi di provenienza, la mancanza di lavoro. Questi profili permettono di andare oltre la percezione omogeneizzante e confusa oggi prevalente e sollecitano ricerche che tengano conto anche dei modi di formazione dell'offerta nei paesi di provenienza. Emergono tra tutti, nelle interviste (raccolte da M.I. Maciotti), i problemi della salute: "hanno una patologia da terzo mondo, quindi corrisponde a trent'anni fa. Quello che trent'anni fa era la Magliana" (dall'intervista con il dottor Colasanti, p. 172).
La ricerca non risponde pienamente alle riflessioni ottimistiche anche se disomogenee e frammentarie dell'autore, che già vede profilarsi una società multiculturale e scorge nell'immigrazione una grande occasione di speranza. Il mondo sembra ormai diventato unitario, una sorta di "villaggio globale" alla McLuhan grazie alle infinite virtù delle comunicazioni di massa. Finora il 'melting pot' non si è tuttavia realizzato e il problema dell'immigrazione continua ad essere posto in termini imperialistici (p. 72) e di sopraffazione paternalistica. Ferrarotti, che in Italia scorge un razzismo "come pratica quotidiana, discriminazione sistematica, sfruttamento del clandestino" (p. 80), ritiene comunque che 1'afflusso pacifico dei terzomondiali segni la fine della storia eurocentrica.
Il discorso di Rosellina Balbi è più ambizioso, ha intenti teorici dichiarati, più che al nuovo razzismo, all'afflusso dei "diversi", e rivolge attenzione all'intreccio di vecchi e nuovi stereotipi soprattutto nell'antisemitismo. A una storia delle teorie della razza, raccontata in sintesi, seguono domande di fondo: che cos'è il pregiudizio, come nasce e in chi? Ma queste domande, e l'ultima soprattutto, non trovano una risposta. Veniamo a sapere che tutti siamo un poco afflitti dal pregiudizio, che esso travalica le barriere di classe, che alligna tra i mediocri in ragionamento, che è irrazionale, che è un sentimento. Rosellina Balbi discute con chiarezza la spiegazione sociale del pregiudizio, sostenuta in particolare dagli studiosi marxisti, che mette l'accento sulla funzionalità del razzismo come strumento di dominio, di sfruttamento e di conservazione dei privilegi dei gruppi dominanti. È la spiegazione in chiave psicologica che, pare di capire, le sembra più convincente e sulla quale si dilunga: il rivelarsi del pregiudizio come rapporto perverso e pervertito tra l'io e gli altri. Quest'idea è largamente diffusa. E non si può negare che essa si presta ad essere accettata più facilmente di quella che fa derivare il razzismo 'in toto' dallo sviluppo del capitalismo, che lo rappresenta come il male del capitale. Ma il fascino-attrazione e repulsione-dell'altro, che è insieme psicosi nei confronti dell'altro e paura di sé, resta così nei limiti del rapporto personale, esistenziale e si arresta alla soglia della fatale perversione, della patologia. Il razzismo diventa una malattia che si può curare con i lumi della ragione (su questo punto è tra l'altro da leggere R. Gallissott, "Misère de l'antiracisme", ed. Arcantère, Parigi 1985).
Lettrice avvertita, che non manca di citare i testi che contano nell'odierna letteratura sul razzismo, l'autrice lascia gli interrogativi aperti e presenta il suo libro come un'occasione per riflettere, con un appello finale a "un po' di esplorazione interiore" sui propri pregiudizi (p. 109). Le operazioni vistosamente pedagogiche, fa capire l'autrice, lasciano il tempo che trovano. Non c'è dubbio che oggi non servono saperi e conoscenze bell'e pronte per fronteggiare le tendenze e per capire le specificità del "nuovo" razzismo. Ma è assente, nei libri di Bocca e soprattutto di Rosellina Balbi, una riflessione più stringente, una visione del razzismo come rapporto e cognizione sociale, profondamente legato alle nostre strutture storiche e alla divisione mondiale del lavoro. Razzismo, razzista, razziale sono termini largamente spendibili, si rischia di fare di ogni erba un fascio. Si potrebbe allora rinverdire la suddivisione tra etnocentrismo, xenofobia e razzismo in senso classico, alla quale fa parzialmente accenno Rusconi ("Osservazioni sui razzismi" in "Micromega", 1, 1989)?
Queste nozioni sono state ampiamente sviscerate e discusse. L'etnocentrismo, costituito da un pregiudizio più "leggero", appare soprattutto legato al monopolio dell'identità e diretto contro il mondo esterno; la xenofobia si dirige verso il nemico interno, il "barbaro", lo straniero; il razzismo a sua volta, che pone con la massima forza il problema dello straniero e della differenza, lo trasforma e lo naturalizza fino alla pratica dell'eliminazione e dell''apartheid' (Per una riflessione su questi concetti, sono da vedere R. Gallissot, cit.; Ch. Delacampagne, "L'invention du racisme", Fayard, Parigi 1983; sulla categoria sociologica dello straniero, "Vicinanza e lontananza" a cura di S. Tibboni, Angeli, Milano 1986).
Non è facile definire la soglia, il punto di transizione e non penso che l'uso di queste nozioni possa portare a una maggiore chiarezza. D'altra parte anche i razzismi sono tanti, si potrebbe parlare di razzismo implicito, latente e di razzismo dichiarato oppure di razzismo dottrinario e di quello "spontaneo", di razzismo di sfruttamento e di razzismo di sterminio, di quello istituzionale, sociologico e così via. Quello che conta è intendersi, cercare di capire appunto di cosa si parla, come osserva Rusconi in vista di una possibile tipologia. E conta indicare le traiettorie di questi razzismi, i loro contorni oggi più che mai fluidi e mobili, perfino il loro rapporto, attraverso ambigui legami simbiotici, con l'universalismo umanistico moderno dell'eguaglianza e della fraternità tra gli uomini, che si rivela un'ideologia ipocrita in un sistema come il nostro fondato sull'ineguaglianza permanente (ancora Balibar, Wallerstein cit.).
In Italia, osserva Laura Balbo, siamo impreparati ad affrontare il problema del razzismo; e questo è tanto più grave quanto più i temi della presenza straniera e delle relazioni interetniche appaiono collegati, per l'opinione pubblica, all'immagine del proprio futuro e dell'identità di gruppo. Nei paesi che hanno conosciuto da tempo immigrazioni massicce, quali Francia, Germania e Svizzera, l'immigrazione è da decenni un problema politico aspro e cruciale. In Italia questo non si è per ora verificato, l'immigrazione è recente e in gran parte non ancora stabilizzata. La politica della porta aperta, la non regolamentazione dei flussi migratori, è stata spesso praticata come un 'pis aller' che consente ai politici di figurarsi tolleranti senza peraltro assumere decisioni responsabili in merito ai bisogni e ai diritti dei nuovi venuti. L'assenza di politiche e di strategie concertate contro le restrizioni e le discriminazioni nel campo del lavoro, dell'alloggio, della salute e soprattutto del diritto alla cittadinanza, rappresenta un indizio del "razzismo" di chi ci governa.

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