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Descrizione


Dopo diciassette anni di rigoroso silenzio, successivo all’uscita di Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, oggi riconosciuto come uno dei rari libri che rimangono della letteratura americana recente, Pirsig si ripresenta con questo romanzo, che è un caso singolarissimo di rinnovamento e insieme di tenace fedeltà agli stessi temi essenziali. Questa volta non è la moto, ma la vela; non le strade aperte della grande America, ma la corrente maestosa dello Hudson che discende verso New York. La mente che agisce e racconta è tuttavia la stessa – e continua a chiedersi: che cos’è la qualità? Il destino viene incontro al protagonista sotto forma di una bionda poco raccomandabile che appare in un bar di velisti. È Lila: una donna dalla vita losca e ambigua; ma è anche lila, che in sanscrito significa «il gioco del mondo», quella fantasmagoria che Siva lascia accadere e per noi si confonde con la realtà stessa. Avere a che fare con Lila, così come avere a che fare con il «gioco del mondo», porta uno sconvolgimento inevitabile. Come meravigliarsi se tutto ciò che riguarda Lila ha qualcosa di incongruo e beffardo, oscillando perennemente fra l’imbroglio e l’incanto? Come meravigliarsi se riflettere sulla qualità che è (o non è?) in lei ci porterà lontanissimo, fra gli Indiani d’America o fra i vittoriani, e anche vicinissimo, in quel cambiamento di umore atmosferico che segna il passaggio dagli anni Sessanta a oggi? Così Fedro, il narratore, sarà travolto da un turbine di eventi, sempre doppiato da un turbine di pensieri, toccando anche punte di deliziosa comicità o di terrore. Ma tutto, ancora una volta, varrà da occasione perché la navigazione proceda, sulla via già tracciata nel primo romanzo e che ora sfocia su nuovi paesaggi, là dove si tenta di dire, con il massimo della precisione e della trasparenza, che cos’è il Bene e che cos’è il Male. Lila è stato pubblicato per la prima volta nel 1991.
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Dettagli

1992
5 ottobre 1992
508 p.
9788845909207

Voce della critica

PYNCHON, THOMAS, V, Rizzoli, 1992
PIRSIG, ROBERT M., Lila, Adelphi, 1992
recensione di Carboni, G., L'Indice 1993, n. 2

Ha ragione Guido Almansi quando, nella prefazione, offre l'idea di assenza di "misura" come chiave per leggere "V". C'è una "smisuratezza" che è propria di ogni gesto letterario, anche il più piccolo, e che consiste nella pretesa di imbrigliare la vita e magari di farle concorrenza; e, com'è noto, ci sono autori che cavalcano questa ambizione smisurata lanciando il romanzo in una sfrenata corsa "enciclopedica" ad includere tutto: dal "Gargantua" di Rabelais al "Bouvard e Pécuchet" di Flaubert, per citare solo due esempi incontestabili. C'è poi forse una smisuratezza propria di certa letteratura americana, una domanda di "grandezza" - in tutti i sensi - e di "controllo della totalità" che a partire dall'Ottocento l'ha resa così affascinante per il lettore europeo. Un'ambizione smisurata, nutrita di una crudele 'earnestness': un bisogno quasi incontrollabile di onestà e di verità ultime, una mancanza di ironica leggerezza che si traduce essa stessa talvolta, nella più completa delle ironie. Un'ambizione preziosa che non ha nulla di ingenuo, se non l'origine essenziale dell'energia che la produce, e che forza lo stile spezzando violentemente le convenzioni dei generi, perfino oggi, quando le commistioni di genere e la violazione delle regole sembrano diventata la regola.
È questo tipo di assenza di misura che mi pare accomuni due romanzi così apparentemente opposti come "Lila" e "V" e che, indagata nelle specifiche differenze, può aiutare a capirne meglio il senso.
Thomas Pynchon è , negli Stati Uniti, quello che si definisce un 'cult writer'; un romanziere che, come è stato notato, sembra aver reso letterale la metafora critica della "morte dell'autore" attraverso la quale Roland Barthes, nel 1968, contribuiva a ridisegnare i rapporti tra soggetto ed espressione letteraria. È un autore che rinuncia ad ogni forma di autobiografismo, ad ogni forma di presenza autoriale che contribuisca a chiarire l'ordine ultimo della narrazione e del suo significato, un autore che scompare di fronte alla vitalità della scrittura e alla potenza della capacità interpretativa del lettore. È uno scrittore che ha deliberatamente cancellato ogni traccia di sé e che esiste solo in quanto scrive. C'è ormai una generazione di critici e di lettori che hanno dedicato i loro sforzi non solo a rintracciare l'origine e a delucidare il senso delle sue più oscure, o irrilevanti, allusioni a episodi storici, a fonti letterarie, a teorie scientifiche, ai prodotti più disparati della cultura di massa, ma letteralmente a cercare di rintracciarlo, di identificarlo, a scriverne una biografia. Ad un certo punto si è persino detto che egli fosse nient'altro che la reincarnazione letteraria di Salinger. È quasi certamente a lui che si ispira il recente romanzo di Don De Lillo ("Mao II", Leonardo, 1991) nell'assumere come protagonista uno scrittore, dice con tragica ironia De Lillo, la cui forza potrebbe stare proprio nel continuare a scrivere senza mai pubblicare. E la relativa debolezza del suo ultimo "Vineland" (1990), dopo diciassette anni di silenzio sembrerebbe quasi dargli ragione.
Lo merita Pynchon il rinnovato interesse che negli ultimi anni sta ricevendo in Francia, in Germania e ora anche da noi, attraverso la riproposizione di vecchie traduzioni ("L'incanto del lotto 49", Mondadori, 1988 dopo la prima, scomparsa, traduzione di Bompiani del 1969) e attraverso nuove traduzioni dei racconti ("Un lungo apprendistato", e/o, 1988) e ora di questo "V"? Direi di sì. Ci sono buone probabilità che il suo sofisticatissimo uso letterario della cultura di massa e della cultura scientifica, la sua tensione insieme apocalittica e simbolica, la sua smisuratezza nel voler "leggere" e "scrivere" tutta l'esperienza storica della modernità, e il suo serissimo senso dell'umorismo, o l'umorismo della sua serietà, lo impongano come il rappresentante più significativo della narrativa americana nel ventennio tra il 1960 e il 1980. E cioè di una stagione storica e letteraria che per tanti aspetti ci appare "chiusa", che sembrerebbe non aver più molto da dire se non ai cinquantenni in vena di inconfessabili nostalgie sessantottine. Ma sarà proprio Così?
"V" - che Natale traduce con mano felice nonostante le gravi difficoltà del testo - è il primo romanzo di Pynchon, pubblicato nel 1963. È uno sterminato romanzo picaresco il cui ancoraggio contemporaneo è la New York del 1955, vista letteralmente "di sotto in su", dalle fogne dentro alle quali uno dei protagonisti per vivere dà la caccia a coccodrilli albini. Si tratta di Benny Profane (Beniamino Profano, chi vuol esercitarsi ad una lettura simbolica dei nomi e degli eventi è il benvenuto, i primi a farlo sono Pynchon e i suoi personaggi, anche se forse è tutto uno scherzo). Benny è profano in senso letterale e in senso simbolico, è un personaggio "alla Kerouac", ma senza la dimensione letteraria ed esistenziale. È un attonito ex marinaio sradicato che letteralmente fluttua nella confusione dell'esperienza senza estrarne un senso o un insegnamento. È sempre "on the road", ma non va mai da nessuna parte, è letteralmente uno "yo-yo". Incidentalmente questo "andare su e giù" mette a nudo il senso vero dell'esperienza che Kerouac aveva descritto nel suo romanzo e già in uno straordinario racconto del 1960 - "Entropia" - Pynchon era riuscito con un colpo solo ad incorporare i due modelli prevalenti della narrativa del decennio precedente: il "'deracin‚' proletario" alla Kerouac e l'"intellettuale immerso nell'angoscia esistenziale" alla Salinger, e a liberarsene.
Se Benny è un vivere che non produce senso, la sua immagine speculare Stencil è la subordinazione della vita ad un folle tentativo di produrre senso. Tra loro due, sembra dire Pynchon con irridente cattiveria, ci sono io, e naturalmente tu "ipocrita lettore". È Stencil che allarga l'orizzonte storico e geografico del romanzo. Stencil è letteralmente una copia di suo padre, ne ha ereditato l'ossessione, letteralmente, per la lettera V. V è per lui l'indizio ricorrente di una grande trama che attraversa la storia è un personaggio e un disegno, l'ipotesi di un significato globale che sembra sempre delinearsi all'orizzonte ed è sempre sfuggente, e il cui valore è indifferentemente positivo e negativo. V è una lunga serie di donne nel cui nome l'iniziale ricorre, è un luogo geografico (Venezuela, Vesuvio, l'irraggiungibile, forse inesistente, Vheissu). V forse è il senso della nostra storia che fluttuando su un mare di orrori comporta una progressiva disumanizzazione, una progressiva contaminazione tra macchina e uomo, letterale e simbolica, che culmina nelle V2 hitleriane (protagoniste del successivo romanzo "Gravity's Rainbow") e nell'unione mistico-meccanico-sessuale tra uomo e missile che il prototipo sperimentale del missile nel romanzo richiederebbe. Per questo dalla New York del Natale 1955 (strano simbolo di rinascita in questo contesto) si arriva alla crisi di Suez del 1956, passando attraverso una rivolta di venezuelani e un tentativo di furto della "Nascita di Venere" del Botticelli nella Firenze di fine secolo, la repressione tedesca della rivolta negra in Africa nel 1904, la Parigi del 1913, il Sudafrica del 1922, l'assedio di Malta durante la seconda guerra mondiale, per arrivare ad un "epilogo" nella Malta del 1919. Ma cosa lega tutto questo a parte V, e il raccontare?
La critica ha spesso sostenuto che Pynchon, abbandonandosi ad una sorta di bisogno "ereditario" che gli verrebbe dai suoi (veri o presunti) antenati puritani, preferirebbe la certezza di un universo in cui si dispiega un disegno storico e divino negativo all'angoscia di un universo in cui non si manifesti alcun principio d'ordine. Ma è difficile esserne sicuri. Il consiglio al lettore è di affidarsi alla letteratura e di fidarsi della letteratura, di assumere un atteggiamento ludico. L'avventura qui è ben capace di portarci e le associazioni, i richiami, i ritorni di immagini, sono più che sufficienti a farci godere il gioco, e il brivido di angoscia, di un senso totale sempre emergente e sempre sfuggente, nel testo, e nella Storia che clownescamente ricostruisce, o meglio decostruisce.
Quello che è certo è che nel processo della scrittura e della narrazione, l'inesauribilità vitale ed episodica, l'avventura del picaresco è diventata il percorso simbolico di una ricerca intellettuale, esistenziale e perfino mistica. Ma naturalmente anche viceversa: la ricerca del Graal è diventata la confusione del picaresco, e il racconto - costruzione di senso o esibizione di insensatezza - diviene emblematico del potere della Letteratura, nonostante tutto, oppure solo del suo inevitabile degrado in un mondo dominato dalla comunicazione di massa, oppure ancora entrambe le cose.
Nel secondo capitolo di "Lila" Pedro, il protagonista, si china su delle scatole che contengono più di tremila schede: sono le note che ha raccolto attraverso gli anni per il libro che vuole scrivere. Alle sue spalle, in una delle cuccette della barca a vela che attraverso il fiume Hudson lo deve portare prima a New York e poi verso i Caraibi - per non "rimanere bloccato dai ghiacci invernali" - dorme Lila, una di quelle donne che, esistano o no, il cinema ci ha insegnato a riconoscere, di quelle che si possono raccogliere un po' ubriache in un bar e portarsi a letto. La valigia che si è portata dietro, passando dal proprietario di una barca al proprietario di un'altra barca, ha spinto le scatole in un angolo e minaccia di rovesciarne il contenuto sul pavimento, e quindi di perderne l'ordine. La letteratura, diversamente dalla filosofia e dalla storia, funziona anche così, attraverso situazioni ed immagini che "dicono già tutto".
Fedro è una vecchia conoscenza dei lettori di Pirsig (anche lui un 'cult writer', un "maestro di vita" invece che un autore invisibile), la fine de "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta", pubblicato nel 1974 (Adelphi, 1981) lo aveva lasciato sulla costa del Pacifico dopo un viaggio che lo aveva portato a fare i conti con la propria follia, con l'emergente follia del figlio e con la "follia" della tradizione filosofica e culturale dell'Occidente. Qui lo ritroviamo, dopo oltre quindici anni di silenzio dell'autore di cui è una maschera dai forti connotati autobiografici, "guarito" di fronte all'impresa smisurata di fare in modo che da quelle tremila schede che attraverso filosofia, antropologia e psicologia, prenda forma il disegno di una completa "Metafisica della qualità". La sua impresa, per molti aspetti non è diversa da quella di Stencil: inseguire tutte le tracce affinché il "Senso" finalmente si dispieghi, la differenza radicale è nel metodo, negli esiti e nel "palcoscenico" su cui questa ricerca si sviluppa. Il metodo è quello della ricerca e della schedatura delle fonti, la creazione di una procedura sistematica perché l'ordine che le sottende si possa rivelare. Anche per Fedro la ricerca finisce per riguardare un segno, ma qui gli esiti sono positivi. Se per Stencil tutto partiva, ritornava e si dissolveva in V, per Fedro l'intera ricerca, culmina nei ritornare al morfema 'rt' del protoindoeuropeo, alla parola sanscrita 'Rta' "l'ordine cosmico il cui mantenimento era il fine di tutte le divinità" un ordine fisico che è anche un ordine morale. Il palcoscenico non più la caoticità del mondo e della storia, come in V, ma l'universo della cultura nelle sue espressioni più alte, e il suo agire nella mente del soggetto che lo valuta e vi ricerca una guida per l'esperienza.
Sono certo che filosofi e antropologi, psicologi e filologi troveranno molto da ridire sulla tenuta e il rigore, sulla serietà di questo "fare filosofia" piuttosto che farne la storia. Sono praticamente certo che avranno ragione. Dal mio punto di vista quello che conta è che questo è un "romanzo", che il fare filosofia si manifesta nella finzione del romanzo, forse perché solo questa finzione può tentare di tenere insieme la "mente" indagante di Fedro e il "corpo" sempre più senza parole di Lila, il dolore, l'isolamento e la follia "superata" di Fedro e quelli in cui vive e in cui si avvia a sprofondare Lila. Solo la finzione romanzesca può tentare di mettere insieme la "vittoria" dell'indagine intellettuale e la "sconfitta" dell'esperienza personale, metterle a confronto in modo che l'una illumini e insieme oscuri l'altra. La tensione fondamentale che anima questo libro è dunque quella tra "indagine" della mente e "ricordo" dell'esperienza, il suo contenuto essenziale è il fatto che l'una non può misurare l'altra e tuttavia lo deve continuamente fare, pena la perdita del senso, del valore dell'esperienza e della sanità mentale.
Il progetto intellettuale di Fedro è doppiamente fuor di misura: smisurato nell'ambizione di scrivere un'intera metafisica e inadeguato a rispondere all'incontro diretto con la concretezza della vita. Lila, questa donna di così poco valore, "ha qualità", ha/è quella qualità che le tremila schede cercano di definire. Fedro, come il suo nome platonico suggerisce, lo sa. Lo sa perché lo ricorda, perché il viso di Lila è il viso che ha visto tanti e tanti anni fa, e che non ha mai potuto dimenticare, e quel viso lo ha visto perché lo aveva dentro, da sempre, come un desiderio e un'aspirazione. Eppure questa "qualità" Fedro non può salvarla, forse perché la "qualità" non si usa o controlla ma, come la "virtù" di cui è sinonimo, si può solo esercitare, vivere, nutrire nella sua elusiva contraddittorietà.
È dunque ancora una volta il femminile che serve da misura ad ogni maschile smisuratezza in entrambi i romanzi, e ne segna, ne misura il limite, il che per molti aspetti rappresenta la più ostinatamente ricorrente delle banalità.
Uno dei problemi con cui la cultura di massa ci impone continuamente di confrontarci è quello della presenza di motivi archetipici dentro ai peggiori stereotipi e del valore di stereotipo di tanti motivi archetipici. Una delle difficoltà nel misurare libri come questi è deciderne il "valore": Letteratura o prodotto degradato dell'industria culturale di massa, Filosofia o "fai da te", "bignami" per salvarsi la vita e l'anima in dieci facili lezioni? Quello che è certo è che anche in questo essi giocano una smisuratezza "americana", sono entrambi libri "democratici" e "per le masse", anche e soprattutto per la loro fondamentale serietà e difficoltà, anche e soprattutto perché si fondano sulla sfida che sia possibile rendere la più seria delle problematiche circolante tra tutti, attraverso le forme della cultura degradata in cui si manifesta, per Pynchon, e attraverso un argomentare narrato che spieghi "tutto quello che è necessario" a tutti, o almeno ci provi, in Pirsig.

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Robert M. Pirsig

1928, Minneapolis (Minnesota)

Pirsig è stato un bambino precoce, con un quoziente d'intelligenza, all'età di 9 anni, pari a 170. Dopo essere stato costretto a ritirarsi e aver prestato servizio militare in Corea, è ritornato negli Stati Uniti dove ha conseguito il diploma universitario nel 1950. Ha frequentato l'Università induista di Benares in India per approfondire ulteriormente la filosofia orientale. Tra il 1960 e il 1963 trascorre un lungo periodo in clinica per un grave esaurimento nervoso; è stato curato anche con l'elettroshock. È autore di "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta" (Adelphi, 1981), "Lila: un'indagine sulla morale" (Adelphi, 1992). Pirsig ha pubblicato poche cose oltre a questi due importanti libri e ha sempre cercato di evitare la vita pubblica,...

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