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Descrizione


Mandela, senza enfasi, in tono sempre scevro da polemiche e autocompiacimenti, ma con la calda sobrietà che gli è propria, ci racconta la storia della sua vita, in un contrappunto continuo tra dimensione personale e politica, tra identità tribale e nazionale, in vista della ricostruzione di uno stato che, dopo i grandi, recenti rivolgimenti dell'assetto istituzionale del Sudafrica, rispetti la fisionomia e la dignità di tutte le componenti sociali del paese.
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Dettagli

2
1995
608 p., ill.
9788807170003

Valutazioni e recensioni

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calabresi alessandra
Recensioni: 4/5

un ottimo libro per capire che mandela non e' solo "quello del nobel"e per conoscere a fondo il quadro storico-politico di un sudafrica macchiato dalla politica dell'apartheid,il tutto attraverso un lungo racconto semplice,schietto e, credo,molto obiettivo.

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recensione di Ercolessi, C., L'Indice 1995, n. 6

La traduzione italiana dell'autobiografia di Nelson Mandela, l'uomo-simbolo per eccellenza della resistenza all'apartheid, esce a un anno esatto dalle elezioni che, nell'aprile 1994, hanno portato al primo governo democratico e non razziale della storia sudafricana e all'insediamento dello stesso Mandela alla presidenza. I quattro brevi anni intercorsi tra la scarcerazione di un uomo e di un leader politico di cui il regime bianco aveva cercato di cancellare anche il ricordo e la memoria e la sua elezione a presidente testimoniano già da soli l'accelerazione dei tempi della politica sudafricana. Ancor più, il testo autobiografico appare mentre si dipana una delicata e difficile transizione politica sotto la direzione di un governo di unità nazionale guidato dall'African National Congress (Anc), da quel movimento cioè considerato "terrorista" dal potere bianco e costretto all'illegalità fino a cinque anni fa. Il Mandela che scrive della propria vita e si racconta è quindi, primariamente e necessariamente, il leader politico che in prima persona, come massima autorità istituzionale del Sudafrica, sta pilotando il passaggio dal vecchio al nuovo; l'incarnazione stessa o, ancora, il simbolo della possibilità di concretizzare finalmente l'aspirazione a una liberazione nella convivenza sistematicamente negata da tre secoli di oppressione razziale.
Certamente, l'autobiografia di Mandela può prestarsi ad altre chiavi di lettura. Essa è anche il racconto dell'"uomo Mandela", della sua crescita, delle sue emozioni e dei suoi sentimenti. È, ancora, il racconto di una formazione politica, dalla prima presa di coscienza dell'ingiustizia delle relazioni tra bianchi e neri nel Transkei rurale al contatto con la realtà del lavoro minerario e industriale con la fuga del giovane "provinciale" a Johannesburg, dall'attività di avvocato alla scelta della militanza attiva. È anche, in parte, una storia dell'Anc: dalle grandi campagne non violente degli anni cinquanta contro l'instaurazione dell'apartheid alla svolta verso strategie di mobilitazione di massa e la creazione delle prime strutture armate clandestine, a cui Mandela contribuisce in modo determinante, quando l'irrigidimento della repressione nei primi anni sessanta chiude qualsiasi spazio all'attività politica legale.
È, inoltre, la storia di una lunga prigionia, della resistenza umana e politica a un universo carcerario spesso gratuitamente feroce, della lotta per mantenere intatta la propria dignità negata di uomo e cittadino e insieme la coerenza del militante, isolato da un mondo esterno che intanto cambia e ribolle. Le pagine in cui Mandela racconta l'infiltrazione del mondo nel carcere (l'indipendenza delle vicine colonie portoghesi di Mozambico e Angola nel 1975; la rivolta dei giovani di Soweto e delle altre città nere nel 1976; il suo incontro, in prigione, con le nuove leve di militanti uscite da quelle lotte; e, infine, l'esplosione del grande movimento di massa degli anni Ottanta) sono forse tra le più interessanti e rivelatrici del pensiero politico di Mandela e del suo modo di concepire la politica e di farla
Malgrado l'isolamento della condizione carceraria, il leader dell'Anc percepisce, con straordinaria lucidità politica, sia le trasformazioni profonde che stanno avvenendo nella società sudafricana sia la crescita di nuove forze e strategie di lotta, di modalità innovative dell'azione politica, di nuove leve di dirigenti, in parte al di fuori dell'orbita di un Anc costretto all'esilio e alla clandestinità. E, nello stesso tempo, coglie, assieme alla rinnovata vitalità del movimento sociale di resistenza, i sintomi della crisi incombente, con le sue potenzialità ma anche con tutti i suoi rischi di deflagrazione. Ed è esattamente qui, sul bordo di un punto di rottura verticale, che Mandela riprende a intrecciare il filo rosso del suo ragionamento politico e della sua strategia di azione, interrotto dalla repressione dei primi anni sessanta, e che oggi possiamo vedere riannodato nella politica del presidente Mandela.
Il racconto del passato diventa un'indicazione politica per il presente; le necessità del governo dell'oggi informano la lettura delle scelte politiche di ieri, quelle degli anni ottanta, della crisi sudafricana delle rivolte, dello stato d'emergenza, della repressione più brutale, dello scivolamento verso la guerra civile (tra bianchi e neri, ma anche tra neri e neri, con lo scontro violento tra il partito zulu di Buthelezi e i movimenti che fanno riferimento all'Anc). Da questo punto di vista, l'autobiografia di Mandela è innanzitutto un testo politico per il presente, se non addirittura una "pedagogia politica", che è facile intuire rivolta soprattutto a quella "generazione perduta" dei giovani militanti delle rivolte dei ghetti degli anni ottanta ai quali, non casualmente, Mandela si rivolgerà per primi appena uscito dal carcere invitandoli a "tornare a scuola".
La ricostruzione dell'apertura del dialogo con il governo alla metà degli anni ottanta, del "primo passo" che Mandela deciderà di compiere, non fornisce rivelazioni o retroscene. Il suo interesse sta semmai nel legame che Mandela stabilisce tra la sua decisione di tentare di aprire un canale di dialogo con il potere bianco e l'esplosione del movimento di massa nelle 'town ship' nere, l'imposizione dello stato d'emergenza, la pesante repressione che ne segue: "Ero giunto alla conclusione che fosse arrivato il momento in cui i negoziati potevano far progredire la lotta, e se non fossero iniziati immediatamente entrambe le parti sarebbero precipitate nelle tenebre dell'oppressione, della violenza e della guerra civile... Noi avevamo la ragione dalla nostra parte, ma non ancora la forza, e mi rendevo conto che una nostra vittoria militare era un sogno lontano, se non impossibile. Semplicemente non aveva senso che entrambe le parti sacrificassero migliaia, se non milioni di vite umane in un inutile conflitto, e anche il governo doveva averlo capito. Era giunto il momento di parlare". È una decisione personale, condotta in isolamento, nell'impossibilità di comunicare con la dirigenza dell'Anc in esilio a Lusaka. È un tentativo di cui Mandela si assume anche tutti i rischi politici, che proprio perché personale può essere sconfessato dai vertici del suo movimento, ma che è mosso da un'urgenza fondata su un'analisi politica che, sia pure in filigrana, appare difforme da quella espressa ufficialmente negli stessi anni dall'Anc e da ampi settori del movimento interno di resistenza. Mandela coglie immediatamente, nell'ingovernabilità crescente della società sudafricana e nella risposta puramente repressiva del regime bianco, i rischi di una deriva verso uno scontro frontale che avrebbe tolto qualsiasi spazio alla politica e, di conseguenza, alla possibilità stessa di una trasformazione in senso democratico del Sudafrica. Il suo "primo passo" verso il "nemico" è quindi, nel suo significato profondo, un tentativo di ridare voce e respiro alla politica.
Senza cedere nulla nel merito delle rivendicazioni del movimento anti-apartheid, sottolineando sempre la sua appartenenza e la sua fedeltà all'Anc da semplice militante incarcerato, Mandela propone un percorso politico di costruzione - assieme alla controparte - di un nuovo Sudafrica. È sintomatico, in proposito, che fin dalle sue prime mosse Mandela insista sul punto cruciale della "normalizzazione". della politica sudafricana, della necessità che. si esca dalla fase dell'emergenza, che il governo riconosca la legittimità dei suoi oppositori in quanto interlocutori politici a pieno titolo, che si producano, insomma, i presupposti per la creazione di una normale dialettica politica come precondizione dell'apertura di un negoziato e di un'eventuale rinuncia da parte dell'Anc all'utilizzo di metodi violenti di lotta. Come è significativo, d'altra parte, che sarà proprio questo il percorso che l'allora presidente sudafricano de Klerk finirà per accettare con il famoso discorso del 2 febbraio 1990, che porterà non solo alla liberazione di Mandela e di altri prigionieri politici, ma anche alla rilegalizzazione dei movimenti di opposizione e all'apertura di un vero e proprio negoziato.
Se oggi il Sudafrica del post-apartheid sta conducendo con relativo successo una transizione pacifica e regolata a un sistema democratico, in controtendenza con il proliferare di sanguinose guerre civili in altre parti dell'Africa e smentendo le più pessimistiche previsioni di pochi anni fa, è anche grazie a quel "primo passo" di Nelson Mandela nel 1985, a quella sua ostinata volontà di privilegiare la "politica" come metodo di soluzione dei problemi e dei conflitti, come l'unica traiettoria percorribile per spezzare le rigidità di un'oppressione razziale secolare, come il solo terreno della costruzione, infine, di una nazione sudafricana. Insomma, il Mandela del 1985, che retrospettivamente possiamo oggi ricostruire attraverso la sua stessa testimonianza diretta, è già lo statista di oggi, è già il presidente di tutti i sudafricani.

recensione di Triulzi, A., L'Indice 1995, n. 6

Un libro-metafora. Un insegnamento fin dal titolo l'autobiografia di Mandela: la storia di un ragazzo africano di campagna dal nome xhosa di Rolihlahla ("attaccabrighe") e quello inglese, impostogli, di Nelson (l'Ammiraglio) che, in età adulta, piloterà con raro equilibrio e senso politico la navicella dello stato sudafricano. E giusto diffidare delle autobiografie dei politici, e quella di Mandela non fa eccezione: anche gli sbagli, le debolezze, le contraddizioni, le molte ironie e gli understatement del testo sono citati per dare forma, e senso compiuto, all'apprendistato politico del ragazzo di campagna chiamato a diventare primo presidente nero di un Sudafrica multirazzzale. Eppure il libro ha un suo tono di verità, non agiografico, quello dell'anziano statista che pur parlando di se non può permettersi il lusso di scordare che il nuovo Sudafrica ha ancora molta strada da percorrere.
L'infanzia dell'autore è pertanto descritta come un luogo di formazione, ed è narrata nel tono e nello stile tipico della tradizione orale: i primi anni felici nel Transkei; la nobiltà dei natali, il padre consigliere di re che si riputa di sottostare al magistrato coloniale e viene pertanto rimosso dall'incarico, l'affidamento al reggente del popolo thembu che lo farà studiare dai missionari, le prime ribellioni "profetiche", il lento maturarsi di una coscienza prima tribale, poi di razza, infine di cittadino di uno stato libero e multirazziale. Il percorso politico di Nelson Mandela è già prefigurato nei suoi primi anni di vita, a contatto con una tradizione locale che l'autobiografia non nega o minimizza (il suo servire a Corte del reggente thembu, la cerimonia rituale della circoncisione collettiva, la fuga, a Johannesburg per non subire un matrimonio combinato), ma dal superamento della quale deriva il suo "farsi uomo", la sua capacità di rispondere all'ansia di libertà di un'intera generazione, in qualche modo impersonarla, farla propria, .e iniziare così a nome di tutti il "lungo cammino verso la libertà"
Per questo le prime parti dell'autobiografia di Mandela sono particolarmente significative nel loro aspetto anticipatorio e profetico di un'infanzia "esemplare". E gli exempla sono tanti: dal "portamento dritto e solenne" che gli "piace" pensare di aver ereditato dal padre, insieme alla sua ostinazione, il suo dichiararsi membro della "nazione xhosa", il suo distaccato rapporto degli inizi con quelle "figure strane e distanti" che erano i bianchi, su cui l'iniziale risentimento misto ad ammirazione delle prime pagine si trasforma, attraverso l'iniziazione politica, nell'individuazione del nemico da combattere, ma non da odiare, anzi da ricondurre al rispetto di quei valori morali e civili a lui derivati dall'insegnamento missionario.
Gli anni a contatto con la società tradizionale, le sue leggi, i suoi valori; i continui contrasti con il mondo dei bianchi, contengono così i primi "insegnamenti" che Mandela, a mo' di apologo, trae al termine di ogni evento narrato. Così, dalle lunghe riunioni tribali del suo gruppo d'origine, dove ognuno era libero di parlare, Mandela capisce che "democrazza significava che tutti i presenti dovessero essere uditi, e che una decisione dovesse essere presa complessivamente come popolo. La regola della maggioranza era un concetto sconosciuto: la minoranza non doveva in ogni caso essere schiacciata"; o ancora, dopo la sua prima protesta in qualità di matricola contro gli studenti anziani dell'elitario collegio di Fort Hare, Mandela avverte "il senso di potere che deriva dall'avere la ragione e la giustizia dalla propria parte".
È in questi anni di apprendistato che Mandela "si fa uomo": le prime cento pagine dell'autobiografia sono il racconto di un'iniziazione, non solo quella rituale del taglio del prepuzio, ma quella assai più cruenta e carica di conseguenze che è stata l'iniziazione politica e la trasformazione dell'originario "attaccabrighe" in soggetto politico maturo. È in questi anni che il giovane Mandela impara (e metaforicamente insegna attraverso l'autobiografia) a combattere: "Imparai a lottare col bastone - conoscenza basilare per qualsiasi bambino di campagna africano - e divenni esperto nelle mosse: paravo i colpi dell'avversario, accennavo una finta in una direzione per poi colpire nell'altra, mi disimpegnavo dall'avversario con un abile lavoro di piedi". Quando più tardi, da studente lavoratore, fa i suoi primi incontri politici nella Johannesburg dei primi anni quaranta, sarà tornando col pensiero ai primi insegnamenti e agli anni di formazione che Mandela inizierà la sua lunga carriera politica.
Come scrive del suo nome africano, Rolihlahla, datogli dal padre alla nascita: "Non credo che il nome rappresenti il destino di una persona, n‚ che mio padre abbia in qualche modo divinato il mio futuro, ma negli anni a venire amici e parenti che ho causato o ai quali sono riuscito a scampare". Per sua e nostra fortuna, Rolihlahla l'attaccabrighe ha saputo lottare col bastone giusto, quello della politica e della dissuasione dalla violenza. Lo "scompiglio" che ha creato, la liberazione non violenta del popolo sudafricano, è la più benefica rivoluzione dell'Africa di fine secolo e il messaggio di speranza più significativo per il suo futuro

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Nelson Mandela

1918, Mvezo (Sudafrica)

Il suo nome completo è Nelson Rolihlahla Mandela.Nella sua intera vita ha lottato contro la discriminazione dei regimi bianchi sudafricani nei confronti della popolazione nera. A lungo è stato uno dei leader del movimento anti-apartheid, e molta della sua attività si è svolta in carcere, dove è rimasto per motivi politici dal 1962 al 1990.Leader dell’African National Congress e Presidente del Sudafrica dal 1994 al 1999, nel 1993 ha ricevuto, insieme all’ex presidente Frederik Willem de Klerk, il premio Nobel per la pace per la sua attività politica in difesa dei diritti degli africani e contro l’apartheid.Nei ventisette anni trascorsi in prigione ha scritto un libro autobiografico, Lungo cammino verso la libertà, pubblicato...

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