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Descrizione


È un'opera sterminata, vera enciclopedia di arti, professioni e varia umanità: uno spaccato di vita formicolante di personaggi, una grande fonte di notizie, informazioni, aneddoti, che fa di questo ecclesiastico romagnolo del Cinquecento un antenato di Gadda e di Borges.
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Dettagli

1996
1 gennaio 1997
2 voll., XCVII-1805 p., ill.
9788806131197

Voce della critica


recensione di Bolzoni, L., L'Indice 1997, n. 5

Un'opera di più di mille pagine in volgare: era una cosa mostruosa, una vera e propria scommessa, e l'autore la vinse. Così presenta al pubblico la sua fatica Paolo Cherchi, editore e commentatore, in collaborazione con Beatrice Collina, di un'opera appunto "mostruosa" pubblicata nel 1585, "La Piazza universale di tutte le professioni del mondo" di Tommaso Garzoni. E come spesso capita in questi casi, capiamo subito - anche solo guardando la mole del lavoro - che "fabula de te narratur", che cioè c'è una componente autobiografica nell'osservazione di Cherchi: pubblicare e commentare la Piazza era appunto una scommessa per lui, e l'ha vinta.
Siamo infatti di fronte a uno di quegli strani prodotti della cultura tardocinquecentesca che sembrano fatti apposta per mandare in crisi ogni tradizionale idea di ordine e di misura, prodotti programmaticamente eccessivi, frequentati finora da pochi studiosi curiosi, per cui non ci si meraviglia che ispiratore del lungo lavoro sia stato, per comune riconoscimento dei curatori, Piero Camporesi. Per uno di quegli strani fenomeni che si verificano nella caotica situazione dell'editoria italiana, a breve distanza è poi uscita da Olschki un'altra edizione della "Piazza", curata da Giovanni Battista Bronzini.
All'insegna della "Piazza", luogo universale e casuale di incontri - e di visibilità delle diverse condizioni umane -, Garzoni raduna un numero davvero incredibile di arti, mestieri, professioni varie. Si comincia con principi e signori, religiosi e giureconsulti, e si continua con una varia umanità, che comprende formaggiai e sibille, puttanieri e beccamorti, bombardieri e ubriachi, attendenti ai prodigi e zoccolari, professori di geroglifici, meretrici e usurai, e così via: l'enumerazione potrebbe continuare, in modo davvero vertiginoso. Ogni professione viene considerata dal punto di vista della storia, dell'etimologia, dello stato giuridico; si elencano i principali rappresentanti, antichi e moderni; ci si ferma sui vizi e le virtù che la caratterizzano; si citano detti ed episodi che vi si riferiscono; si descrivono gli strumenti necessari, si accumulano indicazioni bibliografiche: una specie di catalogo, e di collezione, e anche di catalogo di cataloghi, di raccolta delle varie collezioni possibili.
L'autore era un canonico lateranense, nato a Bagnocavallo nel 1549 e morto a soli quarant'anni. Non abbiamo molte notizie su di lui, e i tentativi della Collina di scoprire inediti sottofondi dietro le reticenti e tardive notizie date dal fratello non portano a grandi risultati.Quel che è certo è che, nel corso della sua breve vita, scrive davvero moltissimo, usando la sua memoria straordinaria, come ci dice il fratello, e anche, come vedremo in seguito, copiando largamente da libri altrui. Titoli fantasiosi e magniloquenti, capaci di attirare l'attenzione e di garantire un buon successo di vendite, erano all'ordine del giorno, tra la fine del Cinquecento e, soprattutto, l'inizio del nuovo secolo. Va detto però che a trovare titoli Garzoni era davvero bravo. Nell'83 aveva pubblicato a Venezia il "Theatro de' vari e diversi cervelli mondani", mentre l'anno dopo la "Piazza" esce un fortunatissimo "Hospidale de' pazzi incurabili"; nel 1589 la "Sinagoga degli ignoranti" mette alla berlina l'idea della docta ignorantia. Davvero ben trovato era anche il titolo dell'enciclopedia magica che prevedeva di pubblicare al più presto, ma chesarebbe uscita solo postuma: Garzoni aveva pensato a "Il palazzo degli incanti", ma un gentiluomo vicentino, Strozzi Cicogna, lo previene, rubandoglielo; l'opera uscirà solo nel 1613, con il titolo di "Serraglio de gli stupori del mondo". Il successo non manca al prolifico Garzoni: la "Piazza", ricorda Cherchi, è "uno degli ultimi e maggiori "best sellers" del Rinascimento italiano": tra il 1585 e il 1675 è ristampata più di venticinque volte, tradotta in latino e in tedesco, riadattata in spagnolo, e variamente imitata e copiata.
Va del resto ricordato che un'opera come questa, così strana e sregolata, si inserisce a sua volta in un bisogno diffuso tra Cinque e Seicento: in un bisogno di catalogare il mondo, di controllarlo attraverso una griglia di parole, e di categorie. In tutta Europa si producono infatti repertori, dizionari, enciclopedie, raccolte varie di parole, immagini, artifici retorici, luoghi comuni, detti memorabili, e così via. I confini tra i vari tipi di repertori non sono sempre chiari. Così ad esempio il dizionario si può espandere verso l'enciclopedia, una singola parola può suggerire un aneddoto, o un riferimento erudito, o un omaggio a un amico o a un protettore. La vita quotidiana si infiltra qua e là, ma la natura di queste opere è sostanzialmente libresca: sono libri che nascono da altri libri, che saccheggiano la biblioteca per riproporne un nuovo ordine, a volte caotico e illusorio; in una situazione in cui il plagio è all'ordine del giorno, magari coperto e santificato dalla dottrina umanistica dell'imitazione-emulazione, si procede spesso saccheggiando libri
altrui, per poi scomporli e ricomporli e presentarli in una veste nuova.
Il merito forse più notevole di questa moderna riproposizione della "Piazza" è quello di averla reinserita entro quella biblioteca da cui nasce. Fare le note a un testo come questo: questa è davvero una difficile scommessa, che richiede pazienza, erudizione, fiuto poliziesco, intuizione e, naturalmente, fortuna. Ritrovare infatti i libri che il testo saccheggia, individuare il passo di un antico, o meno antico autore, in cui già sono elencate, l'una dietro l'altra, quelle "auctoritates" che Garzoni esibisce come frutto delle sue ricerche, come risultato della sua erudizione sconfinata, fare questo, si diceva, vuol dire ingaggiare col testo una vera e propria gara, praticare una specie di gioco a rimpiattino. Le vie che ricollegano la "Piazza" ai testi che copia sono infatti costellate di trabocchetti, i fragili indizi che la "Piazza" contiene sono spesso velati, travestiti, stravolti.I nomi degli autori, i titoli delle opere, possono essere ad esempio resi irriconoscibili non solo dalle disinvolte italianizzazioni, ma anche dagli errori di stampa, dal complesso gioco di metamorfosi cui la memoria, e la distrazione, sottopongono delle parole che suonano come strane e senza senso. Il lettore spesso non può neanche immaginare quali avventurose vicende si celino dietro qualche riga di nota, dietro i nitidi caratteri a stampa che presentano solo il risultato di una lunga, e spesso curiosa, peripezia.È chiaro che tutto questo è possibile solo se il moderno editore condivide la natura "libridinosa" dell'autore della "Piazza", ma vorrei chiarire che non si tratta solo di questo, e neppure soltanto di una pur lodevole preoccupazione filologica.Ricostruire la trama dei libri da cui la "Piazza" nasce vuol dire entrare nel vivo del modo di pensare, e di lavorare, di un'intera fase dell'esperienza tardocinquecentesca.
È chiaro che la nuova realtà della stampa gioca un ruolo essenziale in tutta questa vicenda.La stampa offre possibilità tecniche impensabili, assicura quantità e rapidità di produzione, e soprattutto crea un gioco di domanda-offerta di prodotti nuovi, adatti a un pubblico ampliato e rinnovato, fatto anche di lettori - e di lettrici - curiosi, di media cultura.Direi che un aspetto interessante dell'introduzione di Cherchi riguarda proprio questo punto, il rapporto cioè che un libro fatto così ha con la stampa, e con il pubblico nuovo - o meglio con i diversi tipi di pubblico - che la stampa comporta. L'ampiezza delle professioni (o condizioni umane) che la "Piazza" tratta, nota Cherchi, facilita il gioco dei riconoscimenti, fa sì cioè che tipi molto diversi di persone vi si ritrovino; nello stesso tempo, un libro così costituito si offre a ricezioni diverse: il lettore enciclopedico o anche solo diligente lo può ripercorrere tutto, facendosi guidare dalla successione delle pagine, ma altri tipi di lettori lo possono leggere scegliendo ciascuno il proprio frammento, oppure mettendo insieme frammenti diversi, costruendo dunque una propria antologia.Ed è significativo che Croce pensasse proprio a una moderna ricezione di questo genere, filtrata cioè dall'antologia.
Questa onnivora esplorazione nel mondo delle arti e dei mestieri è da ricollegarsi, secondo Cherchi, alla politica della Chiesa della Controriforma, che "restaurò quella dignità che il Vangelo aveva riconosciuto al lavoro manuale, condannò la "otiositas" ed esaltò la "operositas"". Di qui derivano, secondo il curatore, l'inconsueta ampiezza dei casi considerati e anche lo specifico tono che l'opera assume: "Ed è l'etica, rinnovata da urgenti compiti pastorali, a spingere l'inchiesta oltre i consueti limiti fino a raggiungere gli strati sociali più bassi, affinché l'opera di moralizzazione della vita civile non lasci zone di penombra; e questa spinta morale è anche il fenomeno che anima l'universalità della "Piazza"salvandola da un possibile inerte catalogare, conservandole la varietà umana e problematica che si trova nella storia".
Una chiave di lettura in qualche misura analoga è proposta da Beatrice Collina nella sua introduzione: cita un passo della dedica della "Piazza" ad Alfonso II d'Este ("Godete di veder "tutti gli atti del mondo in un volger d'occhi solo"; mirate qua dentro "tutti" i stati e condizioni di persone; contemplate qui la natura e qualità di ciascuno; e in questa "scena e apparato", ricchissimo di tante cose, "intendete con poca fatica" il bene e il male che posson fare tutti i professori del mondo") per proporre una lettura della "Piazza" come un manuale per il principe, un manuale in cui tutte le scienze sono state "rivedute, corrette, espurgate e moralizzate alla luce dei dettami del Concilio di Trento".
Certo resta aperto il problema della struttura della Piazza, della sua natura ambigua, come giustamente nota Cherchi, che risente delle pretese enciclopediche e nello stesso tempo pratica il disordine e la varietà che erano proprie delle "selve", delle raccolte di materiale disparato; "si può dire - scrive Cherchi - che Garzoni abbia alleggerito l'enciclopedismo della sua opera con un elemento di disordine da selva e abbia controllato la dispersività della selva con tecniche enciclopediche".Il brano sopra citato, della dedica ad Alfonso II, è una specie di "summa" dei miti che accompagnano la fortuna dell'arte della memoria nell'esperienza tardocinquecentesca: la piena visibilità del sapere, realizzata in modo teatrale, la possibilità di costruire un punto di vista, una "dispositio", che permettano di capire e ricordare tutto rapidamente, e così via.Su questa linea, a mio parere, si può utilmente continuare a lavorare, come appare ad esempio nell'intervento di Massimiliano Rossi al convegno "Macrocosmos in Microcosmos" (tenutosi a Berlino nel 1990) e in un saggio molto fine che Carlo Ossola ha dedicato anni fa alla rappresentazione della pazzia. L'intento moralizzatore del Garzoni lo porta a sottolineare il disordine caotico del mondo, e le sue piazze, i suoi teatri, i suoi ospedali, creano una cornice per il caos, un punto di vista sul labirinto, piuttosto che una griglia ordinatrice, capace di assicurare la conoscenza e il controllo. Egli ripercorre e saccheggia i testi più irregolari e inquieti del Cinquecento, quelli di Aretino, Doni, Lando, Franco, Cornelio Agrippa. Lo fa per rovesciarne la logica, per ricostruire le basi di un solido sistema di valori morali e religiosi, ma nello stesso tempo, come nota la Collina, ne è affascinato, e in ogni caso li fa circolare, tanto da attirarsi il biasimo del Possevino.
Ma certo, oltre a riaprire questioni interpretative sulla produzione letteraria italiana di fine Cinquecento, il testo del Garzoni è intanto godibile anche per il lettore di oggi, come giustamente nota Cherchi, che a sua volta propone una specie di personale scelta di brani, all'insegna di un realismo violento, di una versatilità bizzarra, di uno stile epico comico per il quale egli fa il nome di Rabelais. Si può discutere su questo accostamento, ma non senza prima aver ringraziato il curatore, e la sua collaboratrice, per la loro lunga e preziosa fatica.

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