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L'opera in versi - Giorgio Caproni - copertina

Descrizione


Il volume presenta l'edizione critica di tutte le poesie di Giorgio Caproni: dalle prime prove, brevi e melodiche liriche di taglio impressionistico, fino alle ultime, versi scarnificati e cupamente ironici volti alla disillusa ricerca di una risposta ai dilemmi di sempre dell'uomo. L'opera riunisce, oltre alle raccolte già edite, tutte le poesie disperse pubblicate in vita dall'autore, quelle apparse postume e i testi inediti.
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Dettagli

1998
26 maggio 1998
9788804435860

Valutazioni e recensioni

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n.d.
Recensioni: 5/5

L'altezza poetica di Caproni è indiscussa, consiglio a chiunque di leggerlo. L'edizione Mondadori nella collana de I meridiani ha un apparato critico davvero ottimo

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Al. n.
Recensioni: 5/5

Poeta necessario come pochi. Lo si legge negli anni riscoprendolo ogni volta, autore di una coerenza e limpidezza uniche. Il meridiano è il giusto tributo alla sua voce.

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Antonio D'Agostino
Recensioni: 5/5

Come si può non amare Caproni!? Un libro necessario! da portare sempre con se in ogni dove. Caproni è il poeta più arguto , inventivo e vitale del 900 italiano.

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Voce della critica


recensione di Coletti, V., L'Indice 1998, n. 8

Ora anche Giorgio Caproni, come Montale, ha la sua "Opera in versi", impeccabile edizione critica nei "Meridiani" delle sue poesie (non poche le inedite), con un apparato che ne illustra le varie fasi di elaborazione e di stampa e che fornisce, con grande generosità, molto materiale (ma corre voce di un diario dell'autore tenuto finora nascosto dagli eredi; la sua disponibilità avrebbe ulteriormente arricchito l'importante sezione degli autocommenti) utile a conoscere l'occasione, il senso, la destinazione di ogni componimento. Poiché, diversamente da Montale, Caproni si è speso di più e nascosto di meno, l'abbondanza dell'informazione offerta è straordinaria e persino un po' sgomentante, anche se, nel gran mare, il curatore Luca Zuliani si è mosso con una perizia e una chiarezza ammirevoli e graditissime al lettore, che trova anche nella cronologia e bibliografia della benemerita Adele Dei un eccellente strumento di lavoro.
Voluto persino nel titolo, l'accostamento a Montale si impone e, per chi lo volesse approfondire, si può segnalare, fresco di stampa, l'ottimo volume di Luigi Surdich "Le idee e la poesia. Montale e Caproni" (il melangolo, Genova 1998, pp. 267, Lit 28.000), che utilizzeremo qui ripetutamente. Surdich, che è tra i migliori interpreti di Caproni, mette in rilievo i punti di contatto esterni e interni tra i due poeti; ma la sua ricerca di convergenze e somiglianze risulta, a ben vedere, anche un catalogo di incomponibili differenze. Basti solo il cenno, da lui fatto, a due dati, per così dire, oggettivi: 1) entrambi i poeti hanno prolungato la loro esistenza con un libro postumo: ma a fronte delle altezze metafisiche di "Res amissa", gli stucchevoli giochetti montalian-cimiani del "Diario postumo" (per tacere della penosa farsa del legato testamentario che lo ha accompagnato) sono davvero impresentabili, anche a selezionare solo le cose meglio riuscite; 2) la porzione quantitativamente più ampia delle loro poesie, i due poeti la compongono dagli anni settanta in poi; ma anche questo, lo nota bene Surdich, è un "parallelismo rovesciato", perché, se il Montale da "Satura" in giù scrive il "verso" di quel libro il cui superbo "recto" era sigillato nei tre capolavori della prima stagione, Caproni, con la trilogia "Muro della terra", "Il franco cacciatore" e "Il Conte di Kevenhüller" (cfr. "L'Indice", 1986, n. 10), scrive, se vogliamo continuare l'immagine, il "recto" intensissimo di un libro di cui prima, più confidente nelle cose e nel mondo e meno culturalmente attrezzato, aveva fornito, per altro splendidamente, il più disteso "verso".
Quest'ultima osservazione serve anche a fare i conti con l'introduzione al volume. Qui Pier Vincenzo Mengaldo ripercorre magistralmente la vicenda interna dell'opera poetica caproniana, con un'attenzione per metri e linguaggio da par suo. Mengaldo ha messo in chiaro anche la differenza che corre tra il primo e l'ultimo Caproni, pur ritrovando, acutamente, qualche filo rosso; ad esempio, nel suo essere dall'inizio alla fine "un "decostruttore", sia o meno questo carattere in rapporto con una percezione del mondo come giustapposizione di fenomeni che il soggetto non sa o non vuole sintetizzare"; nella vocazione alla serialità e alla variazione, nonché alla narrazione, il cui frutto più vistoso è la ricerca del libro organico, della misura poematica; nella ribadita "ontologia negativa"; nel costitutivo (anche se sempre più stilizzato e metafisico) realismo. Ma c'è un punto in particolare, nell'introduzione di Mengaldo, che merita di essere discusso: l'affermazione che ""Il seme del piangere" è forse il punto più alto toccato da Caproni". Il più autorevole studioso della poesia novecentesca elegge, così, come sua più congeniale, una raccolta degli anni cinquanta, che appartiene cioè, per riprendere la metafora di prima, ancora alla stagione del "verso", della scrittura caproniana più distesa e raccordata. Ora invece, molti lettori (cito, tra gli altri, proprio Surdich) non esitano a sostenere che è il Caproni più frantumato ed ellittico degli anni settanta-ottanta a scrivere, con la trilogia surricordata (anche a tacere dell'incompiuta e postuma "Res amissa"), i più bei testi della sua poesia e i più importanti di tutto il nostro (secondo?) Novecento.
La predilezione di Mengaldo per il "primo" Caproni, però, non stupisce, e io la spiego (anche) con ragioni generazionali. Il "secondo" Caproni è il poeta del dopo-Novecento, o, se vogliamo, di un Novecento che si è formato su paradigmi culturali non noti o rifiutati dalla critica letteraria della generazione dei Mengaldo: intendo i paradigmi del pensiero negativo (da Heidegger a Blanchot), che, frequentati dalla filosofia, sono stati visti con sospetto e distacco dalla critica, storicista o formalista, ma sempre, per così dire, positiva, storicizzante, antimetafisica. I più giovani (penso, su tutti, al finissimo Enrico Testa), invece, hanno familiari quegli autori e quelle coordinate culturali (recuperate in piena fase di rigetto delle ideologie e delle certezze generali) e sono quindi capaci di una lettura più immediata, di una più diretta sintonia con un poeta ad alta densità metafisica come l'ultimo Caproni. La generazione nata nella prima metà del Novecento ha il suo poeta in Montale (della "Bufera", soprattutto) e, al massimo, può spingersi fino a Sereni: autori in cui è sempre forte, prima e più della componente filosofica, la dimensione etica (anche se non politica); in cui l'orizzonte degli eventi è quello storico concreto; i riferimenti sono a principi culturali primonovecenteschi (razionalità/irrazionalismo, politica e storia, ecc.).
A misurare la differenza di referenti e di consapevolezza filosofica tra Caproni e Montale basterebbe osservare (sempre servendoci liberamente di Surdich) come i due si misurino col problema del linguaggio, a proposito del quale entrambi si chiedono se è un mezzo o un limite della conoscenza umana. Se per Montale la parola è qualcosa che "approssima ma non tocca" (e dunque conserva un minimo di valore, per quanto povero, incerto), per Caproni, che va al fondo teoretico della questione, è qualcosa che nega e distrugge ("Il nome avvicina alla morte? / No. Il nome è la morte") e quindi è pura negazione, sottrazione. Stessa cosa si potrebbe notare considerando come la forma ossimorica del reale ("la morsa dell'Equazione" "fra il Tutto e il Niente"), affermata da entrambi i poeti, sia segno in Montale (anche) della debolezza conoscitiva dell'uomo o del degrado morale della modernità, mentre in Caproni è (solo) indice della costitutiva "in-differenza" dell'Essere pervaso dal Nulla fin dall'origine. Caproni è tutto interessato a sondare le dimensioni dell'abisso e non è disposto (al limite della spietatezza) a lasciarsi confortare da umane solidarietà (come Sereni) o da speranze improbabili (come Montale). Dal "Muro della terra" in poi (ma, in forma forse un po' troppo esplicita e predicatoria, già dal "Congedo del viaggiatore cerimonioso"), ha preso a scrivere il dramma, a teatralizzare la sconfitta dell'umana ricerca di senso e di salvezza e a disegnare, con ostinazione e in immagini di straordinaria suggestività (per una somma di concretezza e di assoluto perfettamente ricostruita nei suoi addendi da Surdich), la fine di ogni speranza di razionalizzazione, la riduzione di ogni residuo margine di dubbio, l'avanzata non più contenibile del Nulla. E non ha nascosto (in questo ben più acuto e spregiudicato di tanti filosofi) che il predominio del Nulla equivale alla vittoria del Male, risolvendo (e spostando) così il conflitto etico di sempre nella fondazione ontologica della fuga, della sconfitta, della perdita del Bene (ecco dove mirava, già dal titolo, "Res amissa"). La scoperta del Niente originario è resa alla morte e alla violenza; contro di esse non c'è rimedio, né possibilità di opposizione (non ci sono, in lui, miracoli né ironia, semmai una fiera e straziata "allegria").
Per questo, l'ultimo Caproni è uno dei maggiori poeti dell'età del dopo Auschwitz, che ha misurato l'enormità del male (l'accostamento a Celan è, ancorché solo in parte, ammesso, e proprio per questi aspetti) e assistito alla caduta di tutte le illusioni razionalistiche che speravano di rimuoverla o dissimularla. Per questo, credo, è l'autore più istintivamente congeniale ai giovani che entrano nel nuovo secolo, da essi amato, addirittura, come dice Mengaldo, "con punte di culto".

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Conosci l'autore

Giorgio Caproni

1912, Livorno

Giorgio Caproni fu critico della «Fiera Letteraria», del «Punto» e della «Nazione», oltre che traduttore. Nel 1982 l’Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Poesia. Tra le sue opere Garzanti ha in catalogo la raccolta completa di Tutte le poesie e la raccolta di saggi La scatola nera.

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