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recensione di Spampinato, G., L'Indice 1997, n. 4
Per i cantori medievali l'"alternatim" rappresentava una tecnica ben precisa: era l'intercalare tra la voce salmodiante della musica dell'organo, che a versetti alterni - sopprimendo quasi sempre quelli pari - sostituiva le parole dell'inno sacro. Il canto umano taceva non appena irrompeva quello dell'organo, e viceversa. Chi ascoltava, però, era così familiare al salmo che non poteva evitare di risentire nella mente il versetto taciuto, la cui immagine veniva a sovrapporsi alla cascata sonora prodotta dalle molteplici canne dello strumento. Spettava poi all'organista dar prova della sua arte dell'improvvisazione nella sapienza con la quale sapeva colmare le lacune del testo. Egli doveva infatti riprodurre nella polifonia del suo strumento lo stesso tema monodico che il canto lasciava a tratti in sospeso. È di questo tipo la melodia che accoglie Dante quando le porte del Purgatorio gli si spalancano, e un divino "cantar con organi" esegue per lui il "Te Deum", "in voce mista al dolce suono", tanto "ch'or sì, or no s'intendon le parole".
Tutto ciò viene spiegato da Giovanni Pozzi nel breve scritto che introduce alla lettura della sua ultima, mirabile, opera. I diciassette studi di cui si compone il volume sono riconducibili a un simile "alternatim": alcuni di essi sono dedicati all'analisi del testo letterario (lineare o monodica come lo erano i versetti eseguiti da voci umane), altri all'indagine sui suoi molteplici principi e riferimenti (polifonica e inventiva come il "dolce suono" dell'organo). L'universo di forme simboliche da cui il testo nasce e con cui stabilisce il suo colloquio viene ripensato ed esplorato, ma soprattutto "ascoltato", con la magistrale autorevolezza conferita da una feconda visione interdisciplinare del fatto letterario.
L'opera - o anche la struttura espressiva di un codice di comportamento topico (si veda lo straordinario "Occhi bassi") - viene colta nei punti cruciali in cui nel piano sincronico si invera il diacronico, e la profondità del sistema retorico e conoscitivo si distende in quell'immagine di assoluta superficie che è il testo letterario.
In "Preliminari a Marino", l'autore precisa: "I testi non sono dei dipinti, dove gli esperti possono leggere in superficie e in spessore; noi letterati non possiamo levare ai testi la pelle del colore e scoprirvi il lavoro antecedente". L'avvertimento vale anche in presenza della parziale eccezione rappresentata da un genere come "il racconto mitologico", il quale "doveva giungere a una conclusione obbligata mediante dei passaggi obbligati". Se nell'"Adone", infatti, Marino si trova a operare su una materia preesistente (la storia del tragico amore di Venere per un mortale) come farebbe un architetto impegnato nel rifacimento di un nobile e "falso" edificio in cui nessuno mai si è sognato di vivere, l'esemplare indagine condotta da Pozzi a partire dalle "vecchie travature" del poema, "talora utilizzate a sostegno di nuovi elementi, talora esposte a vista come relitti inoperanti", ben lungi dal "levare la pelle del colore", ci consegna un'immagine di Marino molto più ricca, ma anche molto più inquietante e inafferrabile di quella a cui eravamo abituati. In questi "Preliminari" riconosciamo la luminosa vocazione alla complessità di uno dei grandi maestri di Pozzi, Gianfranco Contini.
Ma per il cappuccino padre Giovanni Pozzi la parola è soprattutto il luogo in cui natura e snaturamento, verità e finzione, si toccano e pervengono a una reciproca misura. Ed è questa la radice delle sue estreme divaricazioni, negli opposti sensi dell'artificio formale (fino al grado "più basso (..). della resa semantica") e della tensione metafisica (che nei mistici giunge alla "slogatura" di ogni significato). Per questa ragione, mi pare, ogni scarto stilistico consumato nella parola e capace di segnarla durevolmente, dal nudo linguaggio dei santi ai più esasperati virtuosismi linguistici, spaziando dalle origini a quest'ultimo scorcio di millennio, trova in padre Pozzi un appassionato e coltissimo esegeta. In questa immensa forbice si situano allora il saggio a cui i più recenti studi sul comporre strofico devono una fondamentale svolta, "L'ottava in forma di rosa", quello dedicato alle "Anamorfosi poetiche nelle maniere di Cinque-Seicento", o il sensibile microsaggio "Elogio del piccolo"; l'interpretazione umorosamente autobiografica di una scrittrice di frontiera come Fleur Jaeggy, o, ancora, lo studio "Sul luogo comune", pietra sdegnosamente scartata dall'"attività critico-letteraria", che si rivela invece "pietra angolare e materiale di ripieno della letteratura".
La finissima, scintillante ironia di Pozzi deve essere davvero intesa come socratica: anche là dove punge, incanta e, soprattutto, entusiasma a un lavoro migliore, più responsabile e coraggioso. Farò, per ragioni di spazio, soltanto un esempio, tratto dall'ultimo saggio citato: "'È un topos' si legge sempre più spesso, per qualsivoglia ricorrenza, come si sente 'è un fiore' da chi non sa i nomi delle piante". Il rimedio consigliato a chi voglia "sottrarsi a questo diffuso sotterfugio" è semplice ma perentorio, come conviene a un precetto scaturito da decenni di vera militanza critico-letteraria: si tratta del "commento testuale, in nota a piede di pagina, o (...) in quell'ormai indispensabile ingrediente d'un buon commento che è il cappello calcato sui singoli testi (...) perché commentare testi è oggi il più urgente tra gli interventi a favore della nostra tradizione letteraria". E ciò valga a proteggerci dai sempre meno sopportabili rumori che tendono ad ammazzare il testo mentre credono di leggerlo.
Ho lasciato per ultimo il dono forse più prezioso di questo ricchissimo libro: la linea di studi dedicati al discorso (letterario o solo ascritto per tradizione alla letteratura) su Dio e sul suo manifestarsi, nel mondo e in quella dolorosa terra di mezzo tra mondo e altro-mondo che è l'uscir fuori di mente dei mistici. Da san Francesco a Manzoni a un contemporaneo come Plinio Martini, passando attraverso "Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia", o "L'alfabeto delle sante", Pozzi ricostruisce un percorso del linguaggio religioso che investe la storia delle idee e del costume, della filosofia e della poesia. "Il Cantico di frate Sole", ricondotto al presupposto di "teologia della lode" che gli è proprio, viene allora restituito alla vera grandezza della sua novità, plasmata nell'"iconismo compositivo" di un Francesco "che aveva chiaro in mente il fenomeno della disseminazione della lettera".
Seguendo una via non ancora battuta, l'uccello più amato e frainteso della tradizione poetica dopo Petrarca, il "passero solitario", approda alla mistica notte di san Giovanni della Croce e alla virile elevazione dell'"anima sopra se stessa" di santa Teresa, alle "parole dell'estasi" - trascritte dalle consorelle - di santa Maria Maddalena de' Pazzi e alla disperata grandezza di santa Teresa Martin del Bambin Gesù.
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