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A quale bagaglio di esperienze e di competenze poté attingere De Gasperi per trasformare l'occasionale e potenzialmente transitoria designazione alla guida del governo nel dicembre 1945 "in una stabile presa di potere"? A questo interrogativo storiografico, intorno al quale ruota il saggio di apertura di Corni e Pombeni, i contributi raccolti nel volume curato dai medesimi studiosi assieme a Eckart Conze, e derivante da un convegno dell'Istituto storico italo-germanico, cercano di rispondere percorrendo due linee di ricerca: l'una porta ad approfondire l'attività politica e amministrativa di De Gasperi nel periodo finale dell'Impero asburgico, l'altra a riflettere sul senso delle meditazioni degasperiane negli anni del fascismo imperante, trascorsi dal politico trentino a diretto contatto, sia pure in posizione marginale, con un mondo vaticano costituzionalmente inserito in una rete internazionale di rapporti e di scambi e uso a inquadrare i fenomeni politici in una prospettiva mondiale. Corni e Pombeni ne fanno derivare l'ipotesi interpretativa secondo cui, proprio "grazie alla storia che aveva alle spalle", De Gasperi divenne precocemente consapevole che "la dimensione 'nazionale' della politica era per gran parte assorbita e condizionata da quella 'internazionale'", e questo gli permise di convertire in una risorsa strategica l'assunzione del dicastero degli Esteri già nel secondo governo Bonomi alla fine del 1944 (un incarico che esulava dai tradizionali ambiti di interesse dei politici cattolici), fino a fondare proprio sul versante della politica estera la sua legittimazione sul piano interno e internazionale e la sua conseguente "fortuna politica".
Questo modo di accostarsi alla figura del leader della Dc comporta due corollari: da una parte, fra le esperienze pregresse, si rimpicciolisce il valore relativo del popolarismo, non solo della particolare esperienza di De Gasperi nel partito sturziano, ma del popolarismo come esperienza collettiva del cattolicesimo politico italiano; da un altro lato, la biografia politica di De Gasperi viene a inscriversi in una linea di sostanziale continuità ("l'unità di una vita": significativa espressione che esce dalla penna di Corni e Pombeni), nella quale gli aspetti venuti pienamente alla luce nella fase più matura appaiono il prodotto del lento e progressivo accumularsi di preziosi fattori di sapienza governativa, lungo decenni pur tanto segnati da scarti e mutamenti delle linee dello sviluppo storico. Ne scaturisce, complessivamente, una raffigurazione pacificata e senza spigoli, di sapore vagamente agiografico, che respinge ai margini ogni elemento discordante con l'esito finale e non sembra ammettere che la grandezza di un uomo politico possa riposare anche sulla capacità di intervenire sul proprio bagaglio di esperienze ed eredità culturali, di schiudere orizzonti nuovi alla tradizione di appartenenza, di rivedere aspetti della propria precedente operosità. In questo modo, a venire oscurata è soprattutto la novità che la nascita della Democrazia cristiana rappresentò rispetto sia alla precedente esperienza italiana di partito cattolico, sia alle posizioni su cui il cattolicesimo italiano si era attestato negli anni del fascismo e per tanta parte ancora indugiava al momento della crisi del regime.
Eppure, diversi tra i saggi compresi nel volume indurrebbero a mettere l'accento proprio sulle discontinuità e sulle rotture da cui emerse il De Gasperi dei primi anni quaranta: quello di Maddalena Guiotto, che dà la misura della distanza tra le originarie propensioni per il cristianesimo-sociale di matrice austriaca e il pieno riconoscimento dei valori della democrazia politica; quello di Alberto Melloni, che segnala il tributo pagato da De Gasperi negli anni della dittatura alla convinzione di un fascismo trionfante e di una propria irrimediabile morte politica, convinzione resa più disperata dalle prevenzioni nei suoi riguardi delle gerarchie vaticane (stravagante risulta però l'affermazione che "il 'sospetto' De Gasperi" fosse "vulnerabile come e più dei fratelli Rosselli"); o quello di Guido Formigoni, che, ripercorrendo gli scritti degasperiani degli anni trenta, ne mostra, sia pure con abbondante uso di costrutti eufemistici, l'adattamento alla realtà circostante che li pervade e la condivisione di quegli aspetti della tradizione cattolica, come il pregiudizio antisemita, che più avvicinavano le posizioni della chiesa a quelle del fascismo. Sarebbe stato bene se il distacco da questo retroterra avesse ricevuto nel volume adeguata attenzione e fosse stato individuato come un nodo storiografico cruciale.
Leonardo Rapone
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