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Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario cllaborazionismo (1943-45) - Luciano Allegra - copertina
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Gli aguzzini di Mimo. Storie di ordinario cllaborazionismo (1943-45) - Luciano Allegra - copertina
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Descrizione


All'inizio del 1945, a Torino venne ucciso da un commando di militi della Repubblica di Salò Francesco Pinardi, "Mimo", giovane intellettuale di solida famiglia borghese che militava in Giustizia e Libertà e la cui biografia mostra come potesse maturare una coscienza critica nei confronti del regime fascista. Mimo fu vittima di una violenza feroce e gratuita, la stessa che migliaia di italiani ebbero a subire in quei duri mesi, il cui clima di disgregazione del vivere civile e del comune sentire viene qui ricostruito attraverso l'intreccio di centinaia di altre storie con i documenti dei processi del primo dopoguerra. Non sono storie di scontri armati, ma episodi di ordinario collaborazionismo nei quali la vena ideologica, il credo fascista, stavano sullo sfondo. Li accomunano piuttosto meschinità e sopruso, tradimento e desiderio di prevaricazione, disumanità e viltà, ricerca del tornaconto personale. Riaffiora dunque, senza infingimenti, una Italia, molto più vecchia di Salò e del fascismo, insofferente delle regole e ignara dei diritti, nella quale lo stretto rapporto fra criminalità e politica è solo lo specchio di una violenza radicata nelle relazioni sociali.
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Dettagli

2010
1 gennaio 2010
340 p., Brossura
9788871581798

Voce della critica

È un libro bellissimo, non solo in sé e per sé. È istruttivo e contiene, soprattutto per chi saprà leggerlo con interesse e attenzione, vari ammaestramenti. Manifesta adesione e fedeltà, magari involontariamente, al precetto del grande poeta inglese Wystan Auden: la storia è la scienza delle domande, non quella delle risposte. E Luciano Allegra pone con giustezza molti e complessi problemi, nel breve periodo dei venti mesi della Repubblica sociale italiana, e nel più lungo o lunghissimo periodo della storia dell'Italia moderna e contemporanea. Tramite paradigmi diversi, tra la storia sociale e quella delle mentalità o dei comportamenti e atteggiamenti psicologici collettivi, tra contesto corale e destini individuali, tra storie di vita e vicende giudiziarie, e quadro complessivo del fascismo di Salò, il libro illustra, con un egregio impianto documentario (in particolare, con gli atti di settecento processi delle corti di assise straordinarie di Torino), la radicale persistenza e costante permanenza della violenza come marchio genetico del fascismo e primo motore del suo sviluppo e parabola fino appunto a Salò: violenza come asse centrale, e non accessorio, del dominio effettivamente esercitato dai fascisti su oppositori e vittime oggetto di persecuzione, repressione, lesione, tortura e massacro.
Il libro si innerva su una partitura complessa ma sempre ben strutturata ed eseguita, dal brano narrativo di una sorta di microstoria, l'assassinio del giovane antifascista torinese Mimo, Francesco Pinardi, alla ricapitolazione del leitmotiv della memorialistica repubblichina, all'impressionante casistica dei processi agli aguzzini di Salò, con la sequenza dei vari "mattatoi" che insanguinarono la città capoluogo e l'entroterra urbano-rurale di Torino nel 1943-45. Il sistematico sopruso sulle vittime designate, la sopraffazione e l'annientamento dei più deboli a opera di una serie di bande armate composte da omicidi e perpetratori di ogni sorta di grassazioni, furti, delazioni prezzolate, stupri e atrocità, smentiscono con l'evidenza dei fatti documentati tutta la retorica postuma sui ragazzi e le ragazze di Salò, che ha ammorbato l'aria del più che intorbidito discorso pubblico degli ultimi due decenni. Salò non fu quindi un'appendice distorta e deviata del regime fascista, ma la prosecuzione logica di tempi e fasi che hanno una loro cifra unitaria dalle origini dello squadrismo nel 1920-21 all'eversione della marcia su Roma del 1922, alla truffa elettorale del 1924, allo stravolgimento dello stato liberale in stato totalitario, corporativo e imperialista.
Eppure, da storico dell'età moderna (ma del tutto a suo agio in questo studio da contemporaneista), Allegra non si accontenta di richiamare le continuità dell'esperienza di Salò con il ventennio fascista, ma suggerisce di retrodatare ancora questa frequenza e costanza e tassonomia di efferatezze e violenze nel più antico e arcaico e contraddittorio e disagevole "viaggio" della nazione (!?) italiana dalla decadenza e dalla disunità verso una costruzione unitaria tutt'altro che virtuosa dello stato, delle istituzioni, della società civile, delle mentalità. Il disagio sociale e le stesse statistiche giudiziarie che abbiamo sulla lunga transizione dagli antichi stati italiani al Regno d'Italia, e alla storia di questo dal 1861 in poi, mostrano inequivocabilmente che oltre alla distanza e separazione tra paese legale e paese reale ebbe il peso e la portata di una vera e propria costante l'endemica diffusione di un complesso di innumerevoli forme di microviolenze individuali, varie volte superiori a quelle di altri paesi europei più strutturati, ordinati o pacificati. Senza per questo che le storie di ordinaria violenza di Salò possano essere derubricate a ineluttabile esito di quelle antiche tare ereditarie.
Il libro si apre con il cadavere di Mimo gettato alle prime ore di una gelida alba sul selciato coperto di neve di piazza Vittorio a Torino. E si avvia con la ricostruzione biografica del giovane intellettuale "estraneo al regime", sempre più profondamente convinto del proprio antifascismo anche se solo in parte attivo nelle pratiche resistenti della clandestinità, almeno fino ai suoi ultimi mesi di vita. La banda di aguzzini che lo cattura, una tra le tante unità regolari e soprattutto irregolari delle numerose polizie ed entità preposte alla repressione della Rsi, non agisce isolatamente. Allegra conferma un dato in parte già noto della storia del fascismo di Salò: il caos per così dire "organizzato" delle violenze sistematiche e terroristiche contro l'incolumità fisica e contro la psiche delle persone non fu di ostacolo al dispiegamento della violenza stessa, come se micropoteri e agenti i più disparati, ma numerosi, concorressero all'intensificazione della repressione e del controllo poliziesco, delle torture e dei massacri. Si trattò appunto di vari e diversi squadroni della morte, di molti mattatoi, nei quali la somma impressionante delle atrocità commesse è forse non così sorprendente, e agghiacciante, come invece lo è il quasi incredibile contesto di sordide depredazioni, razzie, saccheggi, ruberie, spiate prezzolate per cui si vendeva la vita di un essere umano per una mazzetta più o meno spessa di banconote. O si mercanteggiava il rilascio, magari temporaneo, di un ostaggio in cambio di oro, gioielli, arredi, e quant'altro si potesse arraffare nella fase terminale dell'ultimo regime di Mussolini.
Storie, appunto, non di episodiche pulsioni di morte, di eccessi violenti, di schegge impazzite, ma invece di radicato e ordinario collaborazionismo. L'operato delle corti di assise straordinarie dopo il 1945 non fu di poco conto, se si considerano i mezzi e le risorse limitati di un periodo tanto travagliato. Il fallimento delle pratiche di epurazione, con il modesto contributo degli organismi centrali e nazionali come l'Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo e per l'epurazione, ben presto abolito, non fu quindi completo. Le corti d'assise processarono, emisero sentenze e comminarono pene. Il definitivo assestamento della situazione internazionale con la piena affermazione del bipolarismo e della guerra fredda, l'espulsione dal governo nel 1947 di comunisti e socialisti, la trionfale vittoria elettorale democristiana del 1948 chiusero un'epoca. E iniziò una fase ben diversa dell'amministrazione della giustizia e della regolazione dei "conti con il fascismo", in cui pene e sentenze furono emendate, ridotte o cancellate, mandando generalmente assolti, amnistiati, o condannati a pene di entità modesta, se non addirittura irrisoria, gli aguzzini della Rsi. Inoltre, furono piuttosto portati sotto processo i partigiani e gli antifascisti, gli uomini e le donne della Resistenza, dopo la rottura dell'unità ciellenistica e la sua sepoltura. L'oblio più che la memoria diventò la cifra prevalente dell'Italia degli anni cinquanta.
Eppure le parole di quei dibattimenti e sentenze di assise restavano, ed erano parole vive di verità, parole come pietre. Per udirle ancora ci sarebbero però volute la pazienza e l'acutezza di uno storico, capace (trattenendo l'indignazione) di riesumarle da archivi polverosi per restituire loro non solo l'evidenza di prove giudiziarie, ma l'autorevolezza di fonti dirette che ci consentono oggi un giudizio storico solido e fondato.
Marco Palla

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