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Abraham Wald e il «Programma di ricerca» sull'equilibrio
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1996
1 aprile 1996
320 p.
9788820495763

Voce della critica


recensione di Gattei, G., L'Indice 1997, n.10

All'origine i teorici dell'equilibrio generale si accontentavano di contare il numero delle equazioni (a cui avevano ridotto la complessità del sistema economico) con quello delle incognite di prezzo e quantità che in esso erano presenti per dedurne, se la conta era in pareggio, che l'economia concorrenziale era una realtà che ammetteva soluzione anche logicamente coerente, una soluzione che poi il mercato si sarebbe impegnato a tradurre in realtà (addirittura essi dimostravano che l'eventuale pianificatore di un'economia collettivistica non avrebbe potuto far altro che stabilire a priori quella medesima soluzione di prezzi e quantità, sicché tanto valeva lasciar fare direttamente alla "mano invisibile"). Ora però agli occhi dei matematici l'idea che bastasse il pareggio di equazioni e incognite per dimostrare la significatività economica della soluzione era sembrata fin da subito un'ingenuità, potendosi dare, a parità di equazioni e incognite, soluzioni di prezzi e quantità nulle o multiple o anche negative che con la realtà avevano poco a che fare.
È per questo che negli anni trenta alcuni volenterosi studiosi si sono gettati nell'impresa di risolvere l'impasse secondo le linee di un vero e proprio "programma di ricerca" alla Lakatos, il cui contenuto è stato così riassunto da Abraham Wald: "Al fine di un'utile applicazione della matematica all'economia è basilare, in primo luogo, che tutte le assunzioni dalle quali dipende una data rappresentazione matematica dei fenomeni economici siano elencate completamente e precisamente; in secondo luogo, che vengano tratte solo quelle conclusioni che sono valide in senso stretto per cui, se la loro validità è subordinata ad ulteriori assunzioni, anche queste devono essere indicate esplicitamente e precisamente".
A forza quindi d'approssimazioni successive essi sono giunti a dar prova dell'esistenza di una soluzione unica e non negativa per quantità e prezzi di un sistema economico concorrenziale alla sola "condizione che le funzioni che pongono in relazione il prezzo dei beni prodotti con le quantità complessivamente prodotte soddisfacessero certe condizioni implicate dal principio dell'utilità marginale" (Menger), ossia l'assioma delle "preferenze rivelate". Il tutto è stato infine consacrato nel celeberrimo articolo del 1954 di K. J. Arrow e G. Debreu, "Esistenza di un equilibrio per un'economia concorrenziale", che è valso agli autori (non da solo certamente) il premio Nobel rispettivamente nel 1972 e 1983.
La gran parte dei testi di questo "programma di ricerca neowalrasiano" era però apparso in tedesco e spesso a opera di matematici, presentato a congressi di matematici, sicché gli economisti, che evidentemente leggono solo in inglese e non frequentano altre parrocchie, non se ne sono mai interessati più di tanto. È ovvio che doverosamente ne citassero le conclusioni nei manuali, ma senza andare mai oltre la "nota a piè di pagina... o il contenuto di paragrafi dal titolo 'Note sulla letteratura'" (Weintraub).
Ora però la traduzione in italiano dei testi principali di Neisser, von Stackelberg, Zeuthen, Schlesinger e Wald, oltre a materiale aggiuntivo come la brillante ricostruzione storica a opera di Weintraub e il commento testuale di Montesano, toglie almeno agli economisti nazionali ogni alibi per accontentarsi della solita visita di cortesia all'argomento. E pone le seguenti domande: tanto risultato come è stato raggiunto? E non è che il prezzo analitico pagato per quella soluzione significativa sia stato esagerato?
Ricorda Weintraub che il "programma di ricerca neowalrasiana" in realtà non era tanto partito dallo schema originario di equilibrio generale di Walras, quanto dalla sua rappresentazione ridotta (già presente, per altro, nella "Nota matematica XXI" dei "Principi di economica" di Alfred Marshall) esposta nel 1918 da quel Gustav Cassel di cui Schumpeter era solito dire: "10 per cento Walras, 90 per cento acqua". Ora può darsi che tant'acqua abbia così diluito il forte vino walrasiano da trasformarlo in un insipido beverone. Infatti cosa ha fatto Cassel? Ha estratto dall'equilibrio generale walrasiano (che, come si sa, è completo) soltanto le equazioni necessarie alla determinazione di quantità e prezzi dei beni di consumo prodotti e dei fattori produttivi impiegati, ricavandone così la caricatura di un'economia dove, a determinati coefficienti tecnici, non si producono nuovi beni capitali mentre quelli vecchi sono di durata eterna. Conseguentemente scompaiono dalla considerazione analitica sia l'investimento (in che cosa, se i beni capitali non sono prodotti?) sia il risparmio (di che cosa, se tutto il reddito è speso in beni di consumo?), nonché la relativa incognita del saggio d'interesse.
E se pur è vero che il più lucido di tutti, Abraham Wald, consapevole di avere ipotizzato sul momento "che nulla venga risparmiato, per cui il problema della formazione del capitale e del tasso di interesse non viene trattato", aveva subito precisato che "successivamente sarà esposto un sistema dinamico di equazioni nel quale saranno considerati la formazione di capitale ed il tasso di interesse e nel quale i coefficienti tecnici saranno assunti variabili"; tuttavia le sue vicende biografiche (Wald era ebreo) lo costrinsero a riparare in America volgendo i suoi interessi verso la statistica, sicché quella dimostrazione è andata perduta, a meno che, come pensa Weintraub, non sia mai stata nemmeno scritta.
Come che sia, la dimostrazione rigorosamente coerente della determinatezza algebrica dell'equilibrio economico generale è così rimasta confinata nel "programma neowalrasiano" allo schema di una economia capitalistica che più assurda non si può: sarà pure concorrenziale (facendo contenti gli apologeti del libero mercato), ma che razza di capitalismo sarà mai se non vi si rinnovano i beni capitali perché quelli vecchi non si consumano? Il sistema è determinato, tuttavia! Ma la coerenza formale così dimostrata non è pagata al prezzo della più clamorosa irrilevanza economica? È quindi un peccato che nell'antologia in questione nessun accenno sia fatto per avvertire il lettore dell'esistenza di quella "piccola" limitazione che ipoteca alquanto la significatività dell'intero programma di ricerca.
Ma ciò è proprio degli economisti: non discutere mai le ipotesi di partenza. Del resto per guadagnare il Nobel non occorre affatto produrre teorie verosimili - basta che siano formalmente coerenti -, come provato anche da Robert Solow (premio Nobel nel 1987) che è autore di un modello, questa volta di crescita, dove si fa l'ipotesi dell'esistenza di una merce sola!

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