L' abito bianco

L’abito bianco è un capolavoro del pudore in letteratura laddove pudore finalmente non significa omertà, reticenza, dissimulazione, a riprova che la letteratura non si fa soltanto con la mancanza di pudore, con l’eccesso, con la spietatezza: si può dire il proprio limite e lo sforzo di superarlo, vincere sé stessi senza per questo annientarsi, cercare la pagliuzza d’oro di una verità senza prima far saltare in aria tonnellate di roccia che l’attorniano a colpi di dinamite, infine senza pretendere “di trasformare, davanti alla morte, l’impotenza in eloquenza”.

Scrivere un libro anche se non si sa se si hanno le forze per scriverlo, raccogliere e raccontare una storia anche se va al di là della propria capacità di sopportazione nei confronti di quella storia: è il lavoro, riuscitissimo, della Léger che scrive un libro di gesti mancati, di parole non registrate, di sfioramenti da lontano. Letteratura come giustizia perlomeno postuma, come risarcimento, come ribaltamento? No, non c’è niente di ‘tarantinesco’ nell’approccio della Léger che non commetterà la forzatura retorica di far passare per una vittoria segreta una delle tante sconfitte in cui l’umanità quando si rivela essere una volta in più impreparata rispetto all’arte cioè rispetto alla bontà di chi vuole trasmetterne una.