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A parer nostro. La critica televisiva nella stampa quotidiana in Italia
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Dettagli

1992
24 marzo 1992
239 p.
9788839707048

Voce della critica

GRASSO, ALDO, Storia della televisione italiana, Garzanti, 1992
DAGRADA, ELENA, A parer nostro. La critica televisiva nella stampa italiana, Nuova Eri, 1992
recensione di Ortoleva, P., L'Indice 1992, n. 7

"La Storia della televisione italiana" scritta da Aldo Grasso, critico televisivo del "Corriere della Sera", e introdotta da Beniamino Placido, critico televisivo della "Repubblica", è stata accolta da una vasta eco di stampa, ed è probabilmente destinata a rimanere, nei prossimi anni, il testo di riferimento, "la" storia della televisione italiana. Ma è anche un libro che probabilmente, negli anni prossimi, ci capiterà di vedere in tante case: fatto non per essere letto tutto di seguito ma semmai per essere consultato come un dizionario, sembra pensato per essere tenuto accanto al televisore (e al videoregistratore) un po' come si tengono in cucina i libri di gastronomia: ed è pubblicato da un grande editore, in una collana che già ha prodotto vari best-seller
In effetti l'aspetto più deludente e più nuovo del libro è la sua struttura. Non si tratta di un racconto, men che meno di un racconto unitario, ma di una sorta di enciclopedia in ordine cronologico. Per ogni anno, dopo una brevissima sintesi dei principali avvenimenti di ordine politico-istituzionale relativi alla televisione, si fornisce una scheda dei "principali" programmi, su uno dei quali ci si sofferma in modo più approfondito. Sono quasi esclusivamente programmi per il pubblico adulto, escludendo cioè la Tv per i ragazzi, e quasi sempre italiani, escludendo quelli stranieri salvo in casi eccezionali, come "Perry Mason*: questo è un limite non indifferente, perché la programmazione italiana è fortemente condizionata dalle importazioni. Comunque nell'insieme, anche se il gioco del "Quali programmi avrei scelto io al posto di questi" è sempre possibile (costituisce anzi uno dei piaceri della lettura) non ci sono lacune gravi, e i criteri della scelta sono probabilmente più equanimi ed equilibrati di quanto non farebbe supporre il tono, spesso insistentemente ironico, dei commenti. Alle schede dei programmi segue un'antologia di riflessioni, cronache e critiche intramezzata da schede di personaggi (autori, critici, divi, quasi mai funzionari), e l'anno si conclude con una bibliografia.
Ho detto che una simile struttura è deludente, soprattutto tenendo conto delle aspettative che possono essere suscitate dal titolo. Da una "Storia della televisione italiana", visto che è la prima opera con questa impegnativa denominazione, ci attenderemmo una ricostruzione e un'interpretazione di sintesi, un percorso che muova dai dati e dagli eventi per individuare un filo conduttore; ci attenderemmo una periodizzazione che non sia soltanto la scansione della cronologia. Ma un'interpretazione unitaria e una periodizzazione rigorosa nel libro di Grasso non riusciamo a trovarle; e il breve e quasi imbarazzato tentativo di sintesi storica proposto all'inizio, come introduzione, è una delle parti meno convincenti di tutto il volume, anche perché indugia su schemi già noti e probabilmente da rivedere (una "proto-Rai" prima del 1975, tutta pedagogia e tempi lunghi, contro una "post-Rai" frammentata e commerciale) schemi che Grasso non verifica criticamente nel loro insieme. In realtà, non è questo il progetto che aveva in mente.
Superata la prima delusione, infatti, ci rendiamo conto che la struttura adottata ha una sua logica. Prima di tutto, è un libro di servizio. La televisione è uno strumento dalla memoria corta, ma è anche uno strumento che "gioca" continuamente con la memoria dello spettatore, e con il suo senso della storia, inframezzando nel palinsesto la più stretta attualità e i frammenti di un passato più o meno remoto. Un libro come questo serve anche a orientarsi nell'apparente appiattimento della programmazione televisiva, mettendo in prospettiva i diversi programmi che ci vengono presentati tutti insieme.
Ma sarebbe riduttivo limitare il libro a una pur utile dimensione di servizio. L'apparente regolarità un po' banale del percorso da 'reference book' nasconde una tecnica narrativa precisa: quella del montaggio tra materiali differenti (schede, citazioni dalla critica, a volte battute di dialogo, frammenti di cronaca), una tecnica che è meno monotona di quanto possa parere a prima vista, anzi si rivela assai mutevole con l'andare del tempo. Man mano che si procede negli anni, infatti, cambia il senso, e si può dire il gusto, del lavoro di montaggio: per i primi dieci anni ha propriamente le caratteristiche di un'enciclopedia, poi diventa un po' cronaca un po' "Amarcord", alla fine assume l'andamento sincopato, ma monocorde, di "Blob".
Il parallelismo tra le formule narrative del libro e il linguaggio prevalente nel mezzo televisivo contribuisce sicuramente a rendere la lettura godibile, ma costituisce anche un limite della ricerca. Ci troviamo infatti davanti un libro di storia che sembra vivere in simbiosi con il suo oggetto, fino a imitarne, non si sa quanto consapevolmente, le tecniche narrative. Che, come la televisione, è superficialmente frammentario e movimentato, alla distanza un po' ripetitivo, fino ad assumere, con l'assuefazione, una sorta di effetto ipnotico. E, come la televisione, può ingenerare un senso di claustrofobia. Perché nel libro la televisione c'è in tutte, o quasi, le salse, è esplorata con una minuzia da entomologo; ma non c'è, letteralmente, nient'altro che la Tv: non solo non c'è (e questa è una scelta discutibile ma lucida) la società italiana nel suo insieme ma non c'è il cinema, non c'è il mutare del varietà e del teatro, e quasi non c'è (questo francamente è imperdonabile, almeno per i primi anni) neppure la radio, con la quale la Tv (non solo italiana) ha avuto un rapporto di diretta continuità, per quanto riguarda istituzioni, persone, stili.
Va detto che Grasso si trovava di fronte a un problema serio, che da sempre travaglia chi si occupa di televisione: un problema che è affrontato con intelligenza, sia pure da un'angolazione ristretta, nel volume di Elena Dagrada. Tema di "A parer nostro" è quell"'oggetto misterioso" (l'espressione deriva da "Telematch", il programma che lanciò Enzo Tortora, ma chi se ne ricorda?) che è la critica televisiva, un'entità resa inafferrabile dalla natura camaleontica del mezzo, realtà politica ed estetica, misto di informazione e finzione.
Nel primo capitolo, che ha carattere storico, l'autrice ricostruisce i modi in cui il problema è stato affrontato dagli anni cinquanta in poi e ci lascia con l'impressione che non sia stato risolto affatto. Il discorso sulla televisione ha sempre oscillato e continua ad oscillare tra una tendenza a ricondurre il programma televisivo al modello del libro o del film, e una tendenza a privilegiare gli aspetti economico-istituzionali e politici in senso proprio. Il fenomeno più caratteristico degli ultimi anni è semmai, come documentano i due capitoli successivi, la moltiplicazione all'interno dei quotidiani dei punti di vista sulla Tv: la critica propriamente detta, quella di Grasso e di Placido, diventa solo uno dei tanti modi in cui si può parlare di un programma. Una stessa trasmissione può comparire tante volte in punti diversi del giornale: nella pagina della Tv per essere segnalata o commentata, nella pagina politica in quanto è stata oggetto di una controversia, e magari nell'editoriale del noto opinionista in quanto è pretesto per una divagazione sociologica.
Analogamente, la storia della televisione italiana può essere raccontata come: 1) la storia del succedersi di gruppi dirigenti e linee politiche differenti, da Filiberto Guala a Gianni Pasquarelli; 2) la storia dell'affermarsi del monopolio di stato e poi dello sviluppo della Tv commerciale; 3) la vicenda che ha portato gli italiani, grandi consumatori di cinema (e di altri spettacoli pubblici) a trascorrere in media oltre due ore al giorno in casa davanti a uno schermo, piccolo e luminoso; 4) la storia di Anton Giulio Majano, Ciacomo Vaccari, Romolo Siena, Renzo Arbore, eccetera eccetera, e dei loro programmi, come la storia di un rinnovarsi continuo del sempre uguale, da Mike Bongiorno (1956) a Mike Bongiorno (1992). Ed esistono opere anche interessanti che hanno esplorato uno per uno questi diversi filoni: dal bel libro di Oreste De Fornari sullo sceneggiato, ai capitoli storici di parecchie ricerche apparse nella collana in cui ora viene pubblicato il libro della Dagrada.
Grasso tiene conto di tutti gli aspetti, fornisce materiali in tutte le direzioni, e non propone alla fine un quadro unitario. La sua è una "storia totale" della televisione, potremmo dire, al grado zero: nel senso che cerca programmaticamente di accogliere tutti gli aspetti della vicenda di questo mezzo, senza stabilire gerarchie, limitandosi ad accostarli fra loro. Non è una definizione polemica. Nelle ricerche di storia dei media vi è una diffusa tendenza, forse inevitabile, all'eclettismo, al puro e semplice accostamento dei diversi discorsi possibili su un mezzo. Grasso ha scelto di trattare la televisione come un prisma, del quale si espongono le facce una dopo l'altra; e in tal modo ha portato all'estremo questa tendenza eclettica e ne ha messo in luce le potenzialità e i limiti. Ma è una storia che cataloga, classifica, e accosta, più che spiegare.
Il vizio di fondo, che è del volume come degli interventi quotidiani di Grasso stesso (o di Placido e di tanti altri che si occupano di televisione) è probabilmente un altro: il fatto che Grasso non prende davvero sul serio il suo oggetto.
L'osservazione può sembrare eccessiva, ma non del tutto immotivata: fin dalle prime pagine sia Placido sia Grasso si avventurano in un'aggressiva (e nel caso di Placido autodenigratoria) presa di distanze da quel pregiudizio antitelevisivo che attribuiscono, naturalmente, alla cultura di sinistra. È della sinistra la colpa di aver combattuto la Tv, assurdamente e futilmente, solo liberandoci dei suoi pregiudizi possiamo valutarne il giusto ruolo: ecco la tesi comune ai due critici. Per essere più convincente, Grasso fa riferimento ai "fastidiosi 'non a caso'" di cui addirittura "grondano" i libri sulla televisione italiana: "l'industria del nord voleva imporre la motorizzazione di massa e non a caso la domenica sera "Telematch"...; la sinistra veniva schiacciata all'opposizione e non a caso "Duecento al secondo"...".
Non è vero, semplicemente, anche se adesso lo dicono tutti, che la televisione in Italia sia stata demonizzata da una specifica parte politica. Su questo punto, il libro della Dagrada ci soccorre, fornendo un opportuno chiarimento: c'è sì, ricorda, una "iniziale 'ideologia dei rifiuto' che accomuna gli intellettuali [degli anni cinquanta] contro la televisione..." ma "non è di matrice ideologica, viene contemporaneamente da cattolici, laici e comunisti". Del resto, a leggere con attenzione le pagine del volume di Grasso, se ne trova ampiamente conferma: non è da intellettuali di matrice comunista, ma più spesso da figure apertamente conservatrici, come Ceronetti, che vengono le pagine più dure, al limite della paranoia contro la televisione.
È vero invece che sono state scritte chilometriche sciocchezze per decenni; e il libro di Grasso lo dimostra fino all'ingenerosità, anzi in qualche caso fino all'ingiustizia: come quando (infelice scelta delle citazioni) trasforma il bel libro di Lidia De Rita sui contadini lucani e la Tv nei primi anni sessanta in una specie di "Io speriamo che me la cavo" prima del tempo. Se sono state scritte tante sciocchezze, è anche perché la televisione è stata sempre considerata, da destra e da sinistra e dal centro, una "cosa" della quale non solo tutti potevano parlare (e questo è sacrosanto), ma potevano parlare anche senza averci pensato, come pretesto per della sociologia a occhio e dell'estetica da treno. La parola d'ordine è rimasta sempre la stessa: parlarne, anche troppo, ma mai sul serio.
Il discorso pubblico sulla Tv (e vale non solo per l'Italia) ha assunto così un tono ironico, quasi a voler sottolineare che si svolge su un doppio livello: a un primo livello il critico o l'intellettuale si definisce come spettatore tra gli altri, al secondo dialoga con i suoi simili. Di qui il sovrabbondare di allusioni, strizzate d'occhio, umorismo non sempre di buona lega. Anche nel leggere "Storia della televisione italiana", ancora una volta si ha l'impressione di trovarsi davanti a un intellettuale imbarazzato dal suo oggetto, indeciso se definirsi come uno spettatore tra gli altri o collocarsi altrove, indeciso se parlare a tutti o lanciare segnali ai suoi simili. Così, quanto più si avvicina all'oggi, quanto più passa da una Tv ormai non più visibile a quella che è oggetto di consumo quotidiano, tanto più lo stile di Grasso si fa allusivo, pieno di battute e giochi di parole
Proprio questi procedimenti di presunto "distanziamento" ironico portano i critici televisivi a schiacciarsi sul loro oggetto. Ci sono infatti tanti motivi per cui fare continuamente dell'ironia, parlando di Tv, è un cattivo modo per salvarsi l'anima; ma forse il guaio più grave è che la Tv irride continuamente, e per prima, a se stessa, che la Tv è una macchina ironica, non pretende mai di essere presa troppo sul serio, e si pone in generale sul terreno della conversazione scherzosa. Del resto, come ha scritto il critico americano David Marc, l'umiltà (o meglio la finta umiltà) del comico è il vero stile dominante del discorso televisivo.

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