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Se fossero state dotate dei rispettivi testi a fronte, queste cento poesie riferite ai quattro decenni di Ddr presenti sull'atlante politico mondiale avrebbero potuto vantare un risalto ancora maggiore. Peraltro certe traduzioni, sia pure in assenza del conforto sinottico, possono suscitare qualche perplessità. È il caso del noto distico che nell'originale (citato in nota, esempio unico) mette in rima Arbeiterstaat con Kartoffelsalat: mi è sembrata una forzatura non necessaria rendere quest'ultimo termine con "brasato", quando il letterale "insalata di patate" avrebbe potuto garantire di per sé quantomeno una complicità eufonica forte con "stato-proletariato" in grado di non lasciare evaporare l'energia gnomica del testo tedesco. A parte il fatto che rispetto alle patate il brasato è già una pietanza forse troppo borghese per dei proletari autentici. Non è l'unico caso di traduzione disinvolta, tendente a riprodurre anche acusticamente la natura caricaturale del testo di partenza ma presumibilmente un po' spregiudicata quanto al senso. Insomma, e lo dico pur sempre con simpatia per i traduttori, c'è qui dentro qualche piccolo delitto senza testimone.
Certamente, però: ironia e parafrasi, sarcasmo e antifrasi, forme di criptomnesia elitaria in funzione di immunità, agglomerati di enumerazione caotica come stivaggio inestricabile delle centrali di senso, strategie manovrate del disordine, decantazioni verticali del lirico ai limiti dell'uscita di portata del senso, reinterpretazioni metafisiche del paesaggio della Heimat. Questo, e altro ancora, è il quadro operativo entro il quale si pone buona parte dei cinquantanove, tra autori e autrici (non più che problematicamente rappresentato il peso numerico di queste ultime, che si attesterebbe non molto oltre il venti per cento del totale), scrittori in versi cui si devono le cento poesie del libro.
Il quadro tematico complessivo e gli esiti spesso sorprendenti dell'invenzione sostanziale e formale tendono a confermare un principio fondamentale e inquietante: e cioè che un regime di illibertà, all'interno del quale si impone in partenza una strategia di disparità tra il potere e chi vive e scrive dentro il suo orizzonte di cogenze e non intende celebrarlo, un regime di questo tipo, dunque, apre il corso a un complesso irripetibile di opportunità stilistiche, allegoriche, retoriche e ideative. Un solo esempio: le carpe di Czechowski e le ostriche di Braun costituiscono esempi eccellenti di straniamento, mediante l'area del cibo e della sua messa a punto, di una pratica comunitaria come valore in sé, vero spazio di libertà che passa per la primarietà dei rituali. So di osare molto, ma mi spingo ad affermare che un sistema di divieti assunto a codice regolatore da parte della censura politica sulle idee finisce per alimentare in poesia l'attivazione di risorse vitali e euforizzanti proprio a livello della lingua, che è costretta ad adattarsi plasticamente al progetto plurimo e criptico di verbalizzazione obliqua del mondo. Un'occasione da non perdere, dunque (e quando si comincerà, qui da noi, a vivere il neoliberismo dispotico di Berlusconi non soltanto come occasione di satira o di sdegno, ma anche come humus per allegorie complesse dentro l'arte alta e antica del verso?). Non sarebbe certo la prima volta che, grazie alla repressione (che può essere peraltro anche "passiva" e cioè indiretta e "caramellata" dal velo croccante di uno pseudolibertarismo modellato sul primato delle merci), le energie immaginative necessarie ad aggirare i divieti e comunque, in regime liberistico, il limite fisico imposto al libro dal giogo mercantile creano le condizioni per opere letterarie durevolmente e spesso sorprendentemente significative. E il caso di Ovidio spedito al Mar Nero? Forse, appunto, ebbe l'ingenuità di parlare troppo chiaro.
Chiudo citando un passaggio dall'acuta nota finale dei curatori: "I poeti dell'Est maneggiavano il mestiere con maggiore precisione, lavoravano prendendo le mosse dalla conoscenza che avevano della tradizione lirica, in maniera ben più consapevole, con allusioni, slittamenti, parafrasi, echi e citazioni (
) I lettori li prendevano sul serio, lo Stato li prendeva sul serio, loro stessi si prendevano sul serio". Ebbene, ci sarà pure da riflettere su questo. E non certo per assolvere sbrigativamente dei pezzi del regime mentre se ne condannano altri. Però è la nozione di controllo della tradizione lirica e di rilancio intelligente delle sue energie ciò che mi sta a cuore sottolineare. Non è improbabile che la coesistenza tra regime Ddr e poesia avvenisse anche all'insegna di un'etica del lavoro che fosse comunque dotata di spazi di condivisione. Ma a questo punto tutta la vicenda dei "passaggi" all'Ovest aprirebbe un capitolo tanto complesso quanto sostanzialmente noto.
Giorgio Luzzi
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